IL GATTINO CHE EBBE TRE MADRI

IL MICINO NEONATO CHE FU ACCUDITO DA TRE MADRI

Eli aveva notato quel gatto nero e marrone male in arnese che soleva attraversare al pomeriggio la parte alta della proprietà, ma non ci aveva fatto molto caso. L’animale non chiedeva cibo, dunque aveva di sicuro una famiglia di riferimento nel vicinato, però forse aveva deciso che il fondo era territorio suo. Benissimo, così teneva rintanati o lontani i topi.

PRIMO  GIORNO

Un mattino, al risveglio, la donna udì dei lamenti sommessi, anzi un flebile miagolio provenienti dal portoncino di accesso principale alla casa semidiroccata che era stata dei suoi nonni. Andò ad aprirlo: acquattato tra le pietre che fungevano da basamento ai gradini c’era il gatto male in arnese. Dapprima esso scappò, poi ritornò e soffiava. Era una gatta. C’era un micetto grigio appena nato sotto le pietre. Doveva averlo partorito la sera prima, o durante la notte. Ma era mai possibile che ne avesse fatto uno soltanto? Forse gli altri erano morti, chi lo sa … Lei, la gatta, ora pareva molto più in salute. Eli pensò che doveva essere sfinita e affamata e le portò una ciotola di latte. Il gattino era sempre lì. La puerpera leccò il latte avidamente, poi permise a Eli di guardare mentre allattava il suo piccino. Il piccino si allungò sazio sulla pancia della mamma, la quale si sdraiò e si rannicchiò un poco, in modo da farlo sentire protetto. Eli rientrò in casa lasciandoli soli, perché potessero riposare in santa pace.

Cautamente perlustrò i tre lati della casa distanti dai mici alla ricerca di eventuali altri cuccioli. Un’amica figlia di contadini le aveva detto infatti per telefono che è consuetudine degli animali randagi di disseminare la prole, perché in questo modo essa ha speranze maggiori di sopravvivenza. La donna non trovò altri gattini e neppure udì nel corso della perlustrazione lamenti o miagolii lievi.

Prima di pranzo Eli ritornò dai “suoi” gatti, ma il piccino era solo e si lamentava sommessamente. Eli cercò di confortarlo: «Vedrai che la mamma ritorna presto tesorino. Forse è andata a cercare da mangiare; o forse è andata dai tuoi fratellini, per allattarli a uno a uno. Magari li ha nascosti alquanto lontano da qui. Ma ci sono io». Provava un desiderio immenso di prendere quel batuffolino di pelo grigio dagli occhi chiusi e accarezzarlo, ma riuscì a vincersi. «Caro, mi sento un pochino mamma tua anch’io e dunque voglio darti un nome, il mio nome. Non so se tu sia maschio o femmina, dunque meglio che il nome finisca con la -o. Tu sei Elio, hai capito? Il tuo nome è Elio».

Quel giorno Eli non si allontanò da casa. Tornava a intervalli di tempo regolari a far visita al piccino, coccolandolo con il suono della sua voce e ripetendogli il suo nome. «Tua madre è una sciagurata, ‒ gli disse nel pomeriggio ‒ il nascondiglio per te lo ha scelto bene perché anche se sei vicino alla strada i cani non possono entrare da questa parte. Attraversano la proprietà dal terreno intorno alla spianata. Domani compro da mangiare per lei e le do il suo piattino solo in presenza. Diversamente potrebbero fiutare il cibo anche altri animali non adatti a te». Finalmente la gatta tornò, nel tardo pomeriggio. Il micino era felicissimo di riavere sua madre. Questa guardò storto Eli; chiaramente non gradiva la sua presenza accanto al proprio figlioletto. La donna li lasciò soli.

SECONDO GIORNO

All’indomani mattina Eli non riuscì a resistere alla tentazione di andare a vedere se i gatti stavano bene. Ma non c’erano più. Eli con cautela esplorò ogni anfratto o buca tra le pietre. Nulla, spariti. «Meglio così ‒ pensò ‒ non riuscivo a non sentirmi responsabile. Se fossero rimasti non avrei combinato più nulla; addio lavoro; addio articolo». Andò al mare sollevata, ma anche piena di nostalgia. Siccome non si sa mai, facendo la spesa al supermercato acquistò un litro di latte in più e del cibo per gatti.

Nel pomeriggio, mentre lavorava sulla spianata, credette di percepire lamenti tenui dal lato della cucina. Ci andò. C’erano tanti mucchi di pietre grosse. Non vedeva nulla di gattesco però. Ebbe una ispirazione. Con voce alta e dolce chiamò: «Elio! Elio! Sono io, la tua mamma bis. Sei ancora qui?». Subito i lamenti divennero lievi miagolii. Eli ci mise pochi secondi a trovare il gattino Elio, il quale aveva riconosciuto la voce della benefattrice e forse anche il proprio nome. La gatta lo aveva spostato all’interno di un mucchio di pietre. Ora il gattino riusciva a muoversi un po’, quasi a camminare. Solo, sempre solo.

«Quella disgraziata di tua madre meriterebbe che ti pigliassi e ti svezzassi io, in attesa di una soluzione, insomma di una famiglia di qui che ti accolga». La donna gli parlò per un po’, gli ripeté più volte il suo nome, poi riprese il proprio lavoro. Ogni tanto andava a sbirciare con cautela, per tema che la madre scervellata portasse il piccolo più lontano ma senza dargli maggiore assistenza. Quando Eli scorse infine la madre pose il piatto per lei a metà strada tra il nascondiglio del cucciolo e la poltrona estiva su cui sedeva lei. Poi tornò a lavorare cercando di concentrarsi. Difficile.

TERZO  GIORNO

All’indomani mattina il piccolo era ancora nello stesso posto. Di certo la mamma lo aveva allattato e poi se n’era andata per le sue scorribande. Elio chiaramente piangeva. A un certo punto Eli notò un brutto gatto biancastro con una grande macchia nera che gli cerchiava un occhio. Stava sulla strada e osservava attentamente il nascondiglio di Elio, assai più in basso. Eli pensò che forse la bestiaccia era stata attirata dal cibo che lei aveva preparato il giorno innanzi per la mamma gatta. «Vattene via ‒ sibilò, poiché non poteva emettere urlacci per non spaventare Elio ‒ vattene via gattazzo, sei un animale non gradito». L’animale non si voleva muovere. Eli corse a prendere una scopa e lo minacciò, sebbene il muretto di cemento sotto la strada e la recinzione le impedissero di avvicinarsi all’intruso. Tuttavia quelle minacce parvero sufficienti perché l’intruso batté in ritirata. Era maschio o era femmina? Eli decise di non andare al mare perché le pareva che Elio sarebbe stato in pericolo. Dopo averlo coccolato molto con la voce gli portò un piattino di latte. Ci sarebbe voluto un biberon formato bambola, ma Elio riuscì a leccare un po’ di latte. La donna si mise al lavoro, sebbene il miagolio lamentoso del micetto le spezzasse il cuore.

A un certo punto sentì un miagolìo diverso, dolcissimo, melodioso. Andò a guardare. Era la gattazza; eh sì, doveva esser femmina. I suoni che emetteva erano soavi, innamoravano, erano meravigliosi all’udito. Eli comprese come dovette essere il canto delle sirene. La gattazza chiaramente cercava di attirare Elio. Il micetto uscì dal rifugio e corse verso di lei. Eli era sbalordita, e anche impietrita. Appena il cucciolino ammaliato fu sotto il muretto di cemento la gattazza si buttò giù velocissima, evitando di ferirsi con il filo spinato, afferrò Elio per la schiena con i propri denti e portandolo così senza fargli male fuggì via con la preda consenziente, o meglio, sedotta dal canto meraviglioso. Elio rapito! Per il dolore Eli fuggì a sua volta, scendendo al mare e maledicendo durante il tragitto la imprudente madre naturale del piccolo.

L’amica di origine contadina spiegò a Eli che la maternità surrogata era diffusa nel mondo felino; era una forma di solidarietà. Se una gatta aveva l’impressione che dei gattini, per qualche ragione inspiegabile, fossero stati abbandonati dalla madre si proponeva come madre adottiva e cercava di svezzarli, accudirli, proteggerli lei. Insomma la gattazza non aveva cattive intenzioni, tutt’altro. Eli, mentre nuotava, ricordò che aveva già visto quella bestia. Doveva essere una randagia e il suo territorio era la proprietà dei vicini di destra, in stato di abbandono.

QUARTO GIORNO

Il mattino successivo, quando il sole era già alto, Eli si insinuò cautamente e senza far rumore nella proprietà abbandonata. L’erba non era stata tagliata. Roba da incoscienti e criminali, data la frequenza e la velocità con cui in agosto nascevano e si propagavano gli incendi. Quando giunse non lontano dal punto in cui tempo prima aveva notato la gattazza Eli cominciò a modulare con voce alta e soave il nome careggiato: «Elio, Elio». Il micino uscì correndo dall’erba folta e andò da lei. Eli lo prese in braccio, per la prima volta, baciò dolcemente il suo musetto e la sua schiena, poi lo riportò a casa propria. La gattazza non osò seguirla. Ora Eli aveva un biberon mignon e cercò di dare al piccolo, che era un maschietto, un pochino di latte tiepido. Poi prese la cesta in cui si conservavano chissà perché i riduttori di corrente, la pulì, ci mise dentro una sua camicia da notte usata di lana morbida e adagiò Elio su quel giaciglio che gli consentiva di sentire l’odore della mamma adottiva. Elio, come ogni cucciolino sveglio, non essendo ancora in grado di giocare non era felice; si lamentava, avrebbe voluto stare sempre in grembo alla mamma adottiva. La donna era interiormente scissa, ma non poteva permettere che il micio assorbisse completamente la sua vita sebbene accudirlo fosse molto gratificante.

Verso metà pomeriggio arrivò sulla spianata la mamma del piccolo. Guardava Eli con espressione interrogativa e inquisitoria, ma non minacciosa. La guardava insistentemente. Era evidente che secondo lei Eli aveva preso il suo figliolino e lo aveva messo da qualche parte. La donna provò a non dare retta alla gatta ma questa non si arrese. Continuava a guardare la rivale interrogativamente. Eli rifletté qualche istante: «Questa madre è una scervellata, ma sua madre è lei. E non ha abbandonato il cucciolo malgrado il comportamento poco ortodosso. Lei è in grado di svezzarlo. Certo, poi forse lui vivrebbe da randagio, tra mille pericoli, ma se ora non glielo ridò e lo tengo con me gli faccio correre rischi ancora maggiori. Io non ho mai allevato animali; il piccino forse non riuscirà a nutrirsi bene, stando con me e con quel mini-biberon. Potrebbe perfino morire». Eli entrò in casa e prese teneramente Elio dalla cesta: «Amor mio, decidi tu, decidete voi. Ora ti faccio rivedere tua madre. Se vorrai andartene via con lei non ti tratterrò». Depose Elio sul selciato di marmo che prolungava l’abitazione davanti alla spianata. Ora madre e figlio erano a quattro metri di distanza. Eli si allontanò. La gatta si avvicinò cautamente a Elio e cominciò a fiutarlo. Anche il micino fiutava la madre, come poteva. I due si riconobbero. Vinta ogni esitazione la gatta afferrò con i denti la carne pelosetta della schiena di Elio e lo portò via.

Nei giorni successivi Eli non riuscì a resistere al desiderio di rivedere il suo cucciolo. Era facilissimo. Bastava che gridasse «Elio! Elio!» e il gattino sbucava fuori e andava da lei per farsi accarezzare e coccolare. Così per alcuni giorni la donna lo vide crescere un po’ e irrobustirsi, fino a camminare in maniera sicura. Però la gatta ne fu gelosa e un bel giorno madre e figlio sparirono per sempre, lontani. Ma anche per la donna era venuto il momento di ritornare al suo luogo di residenza e di lavoro. Negli anni successivi, quando tornava a villeggiare nella contrada gentile, domandava a ogni gatto grigio dagli occhi azzurri che incontrava: «Sei Elio? Tu sei il mio Elio?». Nessuno di loro la riconobbe mai. Meglio così. Il micio era sicuramente riuscito a farsi la propria vita e non conservava ricordi dei primi giorni di esistenza. La sua mamma, invece, passava ancora dalla proprietà e guardava la donna in modo tranquillo.

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