La Città dello Smeraldo: storia della relazione simbiotica tra una donna e una gemma

La Città dello Smeraldo: storia della relazione simbiotica tra una donna e una gemma

Eli aveva cura, nei non pochi fine settimana in città, di badare a disintossicarsi quanto più possibile dall’ambiente universitario e familiare cercando di godersi la compagnia e l’affetto dei suoi amici veri, che stimava essere tutti buoni, onesti e generosi, indipendentemente da ogni ragione di censo economico o culturale. Confusamente, inoltre, avvertiva d’essere alla ricerca non solo di un equilibrio e di una strategia efficace per vincere la claustrofobia paralizzante, ma anche di un modo che le impedisse di sperperare denaro proveniente dal suo stipendio in pubblicazioni culturali d’élite, che avrebbero dovuto essere invece interamente finanziate dal sistema Università-ricerca.

Dopo aver fatto amicizia con Giulietta aveva preso l’abitudine di andare nella gioielleria ogni sabato mattina o quasi, nel più puro stile “Colazione da Tiffany”. Era accolta bene, e infatti sua madre diceva che scambiava quella gioielleria per un club. Se Giulietta, o anche sua sorella Maria Emanuela, non erano troppo impegnate, le tre donne chiacchierava un po’ del più e del meno, scherzosamente. il Signor Ildebrando, poi, era sempre contento di mostrare alla cliente dal forte senso artistico i suoi tesori, che si trattasse di pietre semipreziose o di perle o di rubini. Tutte le sue amiche, anche le più austere, invidiavano un tantino Eli per questo suo modo gioiosamente infantile di trascorrere la mattina del sabato in conversazione e in contemplazione nel Paese delle Meraviglie.

Il Signor Ildebrando mostrò un giorno alla donna alcuni anelli preziosissimi, dei quali aveva ideato e realizzato recentemente la montatura. V’era tra essi uno smeraldo a forma quadrata, sfaccettato, dall’intensissimo e terso colore verde scuro, grande tanto da valere un piccolo patrimonio (non piccolo, forse). Poggiava e si stagliava da ogni lato su un luminoso e bianchissimo colle di brillanti. Eli forse ricevette quel giorno il primo e il solo colpo di fulmine della sua vita. Erano riprodotti ed essenzializzati in quell’anello tutti i paesaggi della sua vita, cioè, come usa dire, della sua anima: i paesi umidi e opulenti di magnolie, rododendri, abeti, ove luccicano laghi di giada e d’argento; la vetta della montagna gigantesca che si erge dalla confluenza degli oceani, con i suoi prati dall’erbetta fitta e cosparsa di fiori variopinti, le sue foreste confinanti con i fiumi e i suoi boschi dall’aria sempre leggermente mossa; le bianche, alte scogliere a picco sul Mediterraneo intensamente verdazzurro come quelle del promontorio di Peneia Afrida; i bei panettoni chiamati Angalici, ricoperti di boschi verdissimi e diversamente illuminati dal peculiare tipo di chiarore diurno delle stagioni; gli anfratti delle Montagne Bianche e d’Oro in Arzeria, nella zona del Valmuaglieche, tra Davimono e Bronge: anfratti tanto simili alle pietre dolomitiche, al­­le falde dei picchi dolomitici come appaiono in inverno e in primavera per i quali, nell’estate scintillante di luce calda, lei si arrampicava a cogliere l’origano   .

La notte porta consiglio, si dice. Eli trascorse due notti agitate dai sogni più ansiosi, ma alla fine il consiglio arrivò, propiziato, credette lei, da chi ancora l’amava. In denaro sonante poteva anticipare al massimo un quarto dell’importo del gioiello. Il Signor Ildebrando, naturalmente, cercò di dissuaderla dalla meta che si era cocciutamente prefissata e di dirottarla verso obiettivi più realistici, cioè economicamente più abbordabili, ancorché essi pure pregiatissimi. Niente da fare. Come sempre Eli fu testarda e risoluta tanto quanto Dante allorché, anziano o quasi, si rifiutò di fare ritorno a Firenze alle condizioni che il Comune gli proponeva e che egli riteneva umilianti, se non infamanti. Certo, era una comparazione irriverente e puerile ma era l’epoca, quella, in cui ogni situazione della sua vita destava in Eli memorie del poeta e del poema supremi.

Il Signor Ildebrando era formato da tutt’altra pasta che non quella del Comune di Firenze nell’età di Dante. Capitolò, e la donna ottenne lo smeraldo. La proposta di Eli era di versare un acconto pari a un quarto del valore del gioiello e di pagare il resto mediante rate a cadenza mensile nell’arco di tre anni, al termine dei quali il gioiello le sarebbe stato consegnato. Il Signor Ildebrando non volle sentire ragioni. Firmarono delle tratte corrispondenti alle modalità di pagamento da lei proposte, e dopo che egli ebbe incamerato l’acconto le consegnò il gioiello, sic et simpliciter. Non c’è solo la gente dell’Inferno e delle Malebolge, c’è anche quella del Purgatorio e del Paradiso, pensò Eli con sbigottimento.

Da quel giorno lo smeraldo divenne una parte importante della sua vita e vivevano in simbiosi. Quando Eli era costretta a star lontana da lui per periodi lunghi ne avvertiva la mancanza quasi dolorosamente, con la mente, con il corpo, con tutta la sua sensibilità. Quando erano insieme, era sufficiente che lei immergesse i suoi occhi in lui e nel bianco, luminoso cuscino su cui poggiava, perché le amarezze quotidiane scivolassero via e l’anima venisse confortata dallo spettacolo di tanta bellezza. Allora diveniva naturale rivolgere la mente anche all’uomo perduto da poco e a suo padre, e ringraziarli perché le stavano vicini e ringraziare Dio per la gioia che le concedeva.

A Giulietta, a Ildebrando e a Maria Emanuela raccontò per lettera in dettaglio come si erano svolti i primi giorni del connubio tra lei e l’anello beneficamente fatato, che aveva subito condotto nella più tipica e importante tra le Città dello Smeraldo.

Santa Cristina di Val Gardena, martedì grasso 3003

Carissimi, Ettina, Ildebrando e M. Emanuela

Lo smeraldo e io, che viviamo ormai in simbiosi, siamo quassù da sabato scorso e abbiamo goduto di giornate sempre tersissime e rese brillanti dal sole. La valle si mostra con diverso splendore di giorno e di notte. Tuttavia la luna è ben visibile anche nelle ore diurne, mentre le serate, specie nelle notti con falce di luna o senza luna, sono luccicanti di stelle. È come se al calar del buio si stabilisse una corrispondenza armoniosa tra le fiammelle della valle e quelle del cielo: esse sembrano suscitarsi e accendersi vicendevolmente.

Io scio per tre o quattro ore al giorno e il resto del tempo lavoro e studio con molta concentrazione, seduta sull’ampia terrazza della mia pensioncina dalla quale si ammira un vasto panorama sul Sella, sul Sasso Lungo, sul Sasso Piatto, sui Denti di Terrarossa che delimitano, dal lato di Ortisei e di Castelrotto, il vasto altopiano dell’Alpe di Siusi. Si indovina ma non lo si scorge, perché a questa altezza si interpongono alla mia vista alberi e boschi, il dente dello Scilliar, che chiude a nord l’altopiano di Siusi. La valle è tutta ricoperta da una coltre di neve luminosa e chiazzata, a quota 2000, di verdissimi arbusti tenaci che, se osservati a distanza, sembrano contendere il terreno a grandi rocce dalle molte tonalità rosate.

L’anello  è felicissimo di essere qui e di vedere questi luoghi, che sono come concentrati in maniera quintessenziale nel misterioso colore verde scuro e nel cuscino bianco e sfavillante su cui la pietra è adagiata. Quando sono in albergo, quando vado a casa di qualche maestro o di qualche scultore (sapete, credo, che da questa valle provengono quasi la metà delle statue scolpite in legno che ci sono nel mondo) e quando faccio delle passeggiate a piedi lo porto sempre al dito e la simbiosi tra lo smeraldo e me si fa più intensa che mai. Così ammiriamo insieme i colori e i contorni delicati del paesaggio e le stratificazioni merlate e merlettate, che si inarcano e si distendono, si rincorrono e si allungano a perdita d’occhio le une dietro le altre, tra terra e cielo.

A bassa quota (1200-1600) fanno macchia e contrasto sulla neve i boschi verdi, mentre ad alta quota s’innalzano picchi bianco-rosa, snelli e civettuoli, e maestosi altopiani. In giornate limpide come quelle di cui stiamo godendo, se si contemplano contro sole le guglie di calcare dolomitico, il cielo limpido sul quale le guglie si stagliano appare intensamente blu, proprio blu, anche alle 11.00 del mattino, mentre le guglie assumono sfumature dorate. Allora lo smeraldo diventa un pochino geloso, perché teme che il fascino di questo spettacolo risvegli in me la nostalgia dell’isola della luce, il luogo dei più soavi affetti reciproci, del mare e del cielo colorati dal turchese e dal lapislazzulo.

«Ma che mi dici mai anello arcano? Si, anche l’uomo che ho perso amava l’isola dei miei soli anni felici, e ci veniva volentieri con me, ma i suoi occhi erano verdi.  ‒ Piango, le lacrime scorrono inarrestabili, e un’ondata di pensieri esce fuori con esse, scomposta, coloratissima, retorica. ‒ Erano verde scuro, quegli occhi, con qualche inconsueta macchiolina ocra e oro e argento, tra la barba brizzolata e nera, che gli abbelliva il mento fino agli zigomi, e i folti capelli, anch’essi striati e scuri, mai troppo in disordine. Guardandolo negli occhi, vedevo il verde screziato di marrone e di tenui puntine candide, rosa, gialline, delle foreste e dei boschi in cui giovanissima passeggiavo con il mio primo amore, sotto grandi ammassi di nubi bianche e grigie e brevi squarci di cielo azzurrino. E vedevo il verde e gli intensi toni di colore estivi dei paesaggi lacustri, luminosi sotto la pioggia battente, tra i quali è cresciuta, sorridente e gentile, mia figlia. Ti osservo un solo istante, e lo sguardo di colui che con la barba accarezzava i miei capelli chiede lacrime ai miei occhi e struggimento alla gola e al cuore». Vorrei che la simbiosi tra lo smeraldo e me non finisse mai.

Smetto di piangere; mi sembra di avere con le mie parole rassicurato e confortato lo smeraldo. Continuo per qualche minuto ad accarezzare una volta di più con nostalgia le mie memorie tanto tenere e dolci. Poi l’anello e io raggiungiamo quota duemila e anche duemilacinquecento. A quell’altezza, dovunque ci si trovi, gli occhi e l’anima trovano delizia e pace al cospetto dei commoventi orizzonti delle Dolomiti, che si estendono a perdita d’occhio, allontanandosi verso l’infinito e l’eterno: i soli orizzonti che abbiano, per la persona che qui scrive «io», fascino pari a quelli che si contemplano, in solitudine assoluta e senza tempo, dagli altopiani soprastanti  l’Eufrate, nel Kurdistan annesso alla Turchia, . Con il dorso della mano destra massaggio affettuosamente lo smeraldo, e frattanto esso e io siamo afferrati dalle stesse emozioni. Per qualche istante ci pare di contemplare l’opera del Creatore, quale si presentava prima del “peccato originale”, e in questa sensazione risiede, come comunemente si ammette, la più rasserenante esperienza concessa ai mortali da vivi.

Qualche volta, quando sono sulla terrazza dell’albergo, interrompo il lavoro per qualche minuto, mi alzo e punto gli occhi sul Sella, cercando passo Gardena. Volgendo lo sguardo da sinistra verso destra e dando le spalle al Sasso Piatto vedo, sopra Selva, dietro il monte Col Raiser, il semicerchio composto dalle vette parte tonde e parte acuminate del Cyr. Tra le pendici del Cyr e la pista da sci omonima che da Passo Gardena scende a Selva, crescono gli stranissimi arbusti tenaci di cui scrivevo, i cirmoli, che credo appartengano alla famiglia delle conifere, dai verdissimi e lunghi aghi a ciuffetti di cinque. Un maestro mi ha detto che i cirmoli sorgono accanto alle rocce e ai sassi giganteschi perché a essi devono abbarbicarsi per sopravvivere. I cirmoli hanno infatti vistose radici assai poco interrate, quasi tutte di superficie. Affinché l’arbusto cresca e goda di una relativa stabilità, senza che le frequenti violente raffiche invernali di vento lo estirpino, trascinandolo chissà dove, le radici marrone chiaro si avvinghiano ai pietroni e ai massi bianchi e rosa, con essi quasi compenetrandosi in un singolarissimo groviglio. Ciò mi ricorda un po’ la simbiosi tra lo smeraldo e me. Sulle pendici del Sasso Lungo, tra Passo Sella e Plan de Gralba, si estende il paesaggio fatato della Città dei Sassi. Lo sciatore che costeggi la Città vede allora da vicino cirmoli colossali, alti quasi dieci metri.

La pista da sci che pare a me la più suggestiva di questa zona, tuttavia, è quella che scende fino a Ortisei dal Seceda, il monte che troneggia sopra Ortisei e sopra Santa Cristina sul versante – che riceve sole per l’intera giornata – opposto rispetto al Sasso Lungo. Per gli abitanti di Ortisei e di Santa Cristina il Seceda è quasi per antonomasia il monte dove si va a sciare. Qui sciavano i loro padri e nonni e bisnonni e dunque questi valligiani non si lasciano sedurre neanche di un’oncia dalle curate discese parvenues tanto apprezzate dai turisti, come la olimpionica Sasslong. Dal Seceda declinano e si diramano diverse piste, tutte larghe e per ciò stesso non troppo difficili anche quando la china sia erta. La pista che scende proprio fino a Ortisei è la più lunga e anche, specie nella seconda parte, la più stretta. Essa, dopo che si è abbassata fino a un’altezza non molto al di sopra del paese, assume per un tratto l’aspetto del letto di un fiume compreso tra due argini di rupi a strapiombo bianco-grigie alte 4 o 5 metri.

Sopra e al di là del letto del fiume e delle rupi si estendono pendii assai  vasti, ricoperti di campi e di boschi. Essi sono chiazzati di baitine, e anche delle prime case di Ortisei, cioè delle più alte. Quando fa freddo si vedono correre cervi e caprioli, che vengono a cercare cibo. I “forestali” hanno allestito per loro a quell’altezza delle tettoie e delle mangiatoie, sebbene gli animali siano liberi e selvatici, senza vincoli di territorio. Qualche giorno fa (il freddo era intenso), dall’alto dell’ovovia che mi riportava su, alla stazione intermedia, ho visto caprioli accucciati sotto una tettoia. Ieri ‒ la temperatura era risalita di molti gradi e c’era un tepore primaverile – nella stessa zona e dalla stessa postazione ho visto caprioli correre dal bosco verso la proda del fiume, cioè della pista da sci, e poi, più in alto, ho visto un cervo dalle magnifiche e lunghissime corna, che stando quasi fermo sorvegliava un cerbiattino festoso intento a giocare.

Parecchie persone, donne e bambine naturalmente, hanno ammirato moltissimo lo smeraldo e gli hanno fatto tanti complimenti. Lui è molto vanitoso e perciò trae parecchia soddisfazione da queste sue prime relazioni con il mondo umano. Lo disturba moltissimo, invece, il fatto di doversene stare durante la notte rintanato in una tasca interna, ermeticamente chiusa, del mio pigiama; e, di giorno, nelle ore di sci, in una piccola cassaforte di stoffa cucita saldamente dentro i mutandoni che indosso. Il suo disagio viene accresciuto dall’ingente numero di calzamaglie e di maglie di lana che ricoprono i mutandoni (al mattino abbiamo raggiunto non di rado -15°): e, dulcis non in fundo ma in superficie, il maglione e il completo da sci. Pare allo smeraldo che io così rompa la simbiosi tra  lui e me.

Insomma, ho dovuto far capire con qualche severità allo smeraldo che queste limitazioni della sua libertà, per lui assai fastidiose, sono indispensabili. Nondimeno lui e il mio anulare destro hanno raggiunto ormai un ottimo livello di affiatamento. Per rendergli meno penoso il vicino ritorno a casa gli racconto che non appena rimpatriati andremo subito insieme in negozio da Ildebrando, Ettina ed Emanuela. Così lo smeraldo rivedrà i suoi parenti e amici del primo piano della gioielleria e racconterà loro le sue avventure in montagna. Lui è già tutto contento all’idea che verrà invidiato dall’intero primo piano. Ma insomma, io gli raccomando di essere delicato nei confronti del prossimo e di mantenere entro limiti equilibrati e costruttivi le varie forme della legittima, comprensibile aspirazione a sentirsi e a essere il migliore. Ha diritto a un pizzico di superbia solo chi è capace di profonda e sincera umiltà. Lui tutto sommato non è troppo lontano da questo modo di sentire.

Esattamente la sera di quel venerdì in cui per la prima volta ho infilato l’anello al mio anulare, lo smeraldo e le meravigliose pendici di brillanti sopra le quali è incastonato hanno incontrato, a una cena, un gruppo di signore della “buona società”, suscitandone l’educato stupore. So tuttavia con certezza che lo smeraldo, pur provando simpatia per le signore eleganti ma dedite anche a occupazioni non oziose né frivole (Croce rossa, altro volontariato) si sente più a proprio agio quando gioca con le bambine della Val Gardena e quando è immerso nella natura rigeneratrice del corpo e dello spirito.

Occorre rientrare anche all’Inferno, e non vorrei portare mai costà l’anello; lascerò tuttavia che sia lui a decidere. Deliziosa e regale Giulietta, Ildebrando dal fine animo artistico, simpaticissima e sorridente Maria Emanuela, grazie di cuore per avermi concesso, molto più che gentilmente e signorilmente, di avere sempre con me l’anello arcano, come me amico-amante della solitudine, ma capace di calamitare in ogni circostanza i miei sentimenti migliori e di addolcire la mia claustrofobia, l’angoscia e l’affanno.

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