Come si sente una persona che vive da sola e che si è offerta di accogliere in casa sua dei profughi ucraini?

Come si sente una persona che si è offerta di ospitare dei profughi ucraini?

Si spera che tutti abbiano visto le immagini televisive che ritraggono l’arrivo di alcune donne ucraine ancora giovani a casa di “mamma Elena”. Mamma Elena non è stata la sola. Quasi tutte le famiglie che ai tempi della esplosione del reattore nucleare nella centrale di Chernobyl, costruita dai Russi, avevano accolto in casa loro ogni estate per un mese, nel corso di diversi anni, i cosiddetti bambini di Chernobyl; quasi tutte queste famiglie ora stanno riaccogliendo le bambine diventate donne (gli uomini sopravvissuti combattono in patria) mentre i Russi (o meglio, Putin e i suoi fedelissimi) straziano il loro Paese. Durante tutti questi ormai numerosi anni le bambine sono rimaste in contatto stretto con le famiglie accoglienti (viva skype, i social e altro ancora). Le bambine ‘sue’ avevano imparato a chiamare “mamma” la signora Elena. Sempre hanno continuato a chiamarla mamma, e ora questa donna dalla generosità straordinaria ha ripreso in casa con sé le figlie ucraine e i loro bambini.

Immagino, suppongo, che per mamma Elena sia stato un conforto immenso apprendere che le sue ‘figlie’ erano tutte vive; ed è ora un secondo grande conforto poterle riavere in casa propria, fino a quando? Non si sa.

Ma chi scrive che c’entra? Chi scrive non aveva ospitato bambini di Chernobyl (allora non aveva la camera in più e abitava in una mansarda con il proprio bambino: non esattamente la casa che tutti vorrebbero avere). Perché chi scrive ha quasi precipitosamente telefonato alla Comunità di Sant’Egidio dichiarandosi disposta a ospitare due profughi? Cioè due sconosciuti. E perché ha subito divulgato la notizia di ciò presso tutti i propri amici e presso molti conoscenti? Rispondere a questa seconda domanda è più facile e anche quasi ovvio. Ha divulgato la notizia della propria disponibilità perché sperava immensamente che potesse coinvolgere altri, che spingesse altri a fare la stessa profferta.

Durissimo da scriversi, ma nessuno dei numerosi amici/amiche e conoscenti della scrivente, i quali hanno chi una, chi due, chi anche tre o quattro stanze in più, cioè vuote, disabitate dai figli ormai grandi e fuori di casa: nessuno ha ritenuto di doversi fare avanti per proporsi come datore di ospitalità ai profughi. Diverse persone, appresa l’iniziativa di chi scrive, le hanno scritto calorose parole di elogio e ammirazione, sicuramente sincere; alcune persone hanno reagito con freddezza, quasi pensassero: “la verità è che vuoi sentirti buona e soprattutto approvata e apprezzata; sei solamente una vanagloriosa”. Una sola persona, una soltanto, ha ricontattato chi scrive alcuni giorni dopo che questa aveva dato fiato alle trombe, per chiederle se i profughi erano arrivati e se poteva fare qualcosa per aiutarla: una tra molte decine.

I profughi non sono ancora arrivati e chi scrive non è del tutto certa che glieli daranno (non aveva mai avuto prima contatti con S. Egidio) perché con sincerità ha spiegato che, essendo ammalata di un’artrite reumatoide pesante (e dolorosa), è sì autosufficiente ma non è in grado di preparare pasti agli ospiti, che avrebbero però l’uso di cucina. La sensazione è tuttavia che con oltre quattro e forse cinque milioni di persone che stanno scappando dall’Ucraina, e il numero potrebbe aumentare, le possibilità di dovere accogliere sono abbastanza elevate. Dunque si può rispondere alla domanda “Perché chi scrive ha quasi precipitosamente telefonato alla Comunità di Sant’Egidio ecc.?”. La scrivente ha visitato in passato alcuni centri di prima accoglienza (uno soprattutto, diretto da una suora giovane meravigliosa). Personalmente preferirebbe morire piuttosto che star lì settimane e forse mesi. Dunque ha sentito come un dovere quello di aprire casa propria: 169 mq con terrazzo e dentro un parco, nella quale abita una sola persona, salvo visite domenicali con pernottamento del figlio. Abitazione ereditata, certo.

Potrebbero benissimo esserci la scrivente, suo figlio e sua sorella tra quelle masse di infelicissimi che fuggono da questa guerra voluta da un megalomane che si è rivelato anche idiota. Questo genere di considerazioni le fanno molti, non è vero? Bastano a motivare qualcuno fino a indurlo a prendere in casa propria degli sconosciuti? No, ovviamente. Occorre l’assoluta certezza che se dichiari di avere dei valori morali e religiosi devi metterli in pratica questi valori, altrimenti sono solo chiacchiere e chi chiacchiera e basta è un quacquaracquà (anche se ha investito alcuni euro in cibo e medicine per gli Ucraini). Chi scrive NON è interessata all’aldilà. Se dopo la morte davvero si andasse davanti a qualche giudice tipo San Pietro chiederebbe, supplicherebbe sommessamente e umilmente per la morte della propria anima: questa vita le è bastata, davvero non ne vuole un’altra e men che meno eterna. Nondimeno chi scrive è fortemente ancorata ai valori cristiani e soprattutto alla virtù della carità, fondamento del cristianesimo, come voleva San Paolo.

Con ciò si è risposto a tutte le domande salvo che a quella contenuta nel titolo. Come si sente chi non ha voluto essere un quacquaraquà? Beh, prima di tutto spera dal più profondo del cuore che non glieli diano, i profughi, giacché ha problemi di salute seri. In secondo luogo è molto confusa: non ci sono abbastanza coperte in casa sua per due persone in più; gliele presterà qualche amica? In terzo luogo è molto preoccupata perché la camera che può mettere a disposizione è sufficientemente ampia ed è molto luminosa, ma era uno studio e ha la fisionomia di uno studio tuttora, anche se la sua titolare non può più lavorare seduta a una scrivania: è tipico che i malati di artrite reumatoide non possano appoggiare le braccia su un tavolo; dunque chi scrive lavora in soggiorno, seduta sul divano, e tiene il notebook sulle gambe piegate. La scrivania nello studio è immensa, su di essa poggiano due scaffali a libreria e nel retro della scrivania, che è appoggiata a una parete, stanno due grandi scaffali (metà del sottotavolo) che fungono da scarpiera. Una grande libreria ‘digradante’ (proviene dalla mansarda con pareti digradanti) occupa per intero la parete opposta. C’è poi un grande comò ottocentesco con cassetti stipati di biancheria per bagno e per letto matrimoniale e, addossato alla quarta parete, un porta-abiti metallico tipo negozi di abbigliamento, stipato anch’esso all’inverosimile di roba della scrivente e di sua sorella (che abita sullo stesso pianerottolo). I due letti constano in realtà di un divanetto che può diventare un letto e di una intelligente brandina che sta sotto il divanetto, estraibile e con zampe pieghevoli.

A fronte di ciò il primo pensiero della scrivente è stato: devo riuscire a togliere almeno il comò e il porta-abiti con tutto il loro contenuto e metterli in cantina. “Questi non hanno più nulla, proprio nulla: vedendo un’abitazione piena di roba come questa vuoi che non si impossessino delle lenzuola e degli asciugamani migliori?”. Eh sì, questo è stato il primo pensiero; solo dopo lei si è detta che togliendo comò e porta-abiti quelle povere persone avrebbero uno spazio vitale vero. Le persone per ora solo possibili non avrebbero mai, però, una privacy completa in quella camera. Giocoforza la scrivente dovrà entrare ogni tanto, chiedendo permesso, per prendere libri o posarli (lei ancora si dedica alla ricerca scientifica). Mamma mia, pensa lei: come minimo bisogna comprare un porta-abiti per loro; bisogna togliere le scarpe dal retro della scrivania; e dove può metterle le scarpe? Buio. Forse il suo figliolo le darà il permesso di piazzare una scarpiera non troppo invasiva nella sua stanza. Speriamo. E speriamo che non si freghino le scarpe Finn, costose, alle quali la scrivente è stata inesorabilmente costretta dalla sua malattia. La scrivania, fortunatamente, ha anche una bella cassettiera lato dx, che è da svuotare anch’essa, certo: e dove mettere quella roba?

Lei in questi giorni sta indossando sempre i suoi gioielli più cari, gli orecchini e il filo di perle sigillo d’oro della Mikimoto, il brillante della nonna, uno splendore. Chissà per quanto tempo dopo l’arrivo degli Ucraini queste cose tanto amate dovranno restare seppellite nella cassetta di sicurezza.

La scrivente guarda casa sua, che negli anni del lock down è stata parzialmente ristrutturata. Ora ha due bagni magnifici, molto costosi (grazie, cari bonus statali) e una cucina, ariosa, spaziosa, dall’arredo elegantissimo e molto comodo (che meraviglia la penisola!): tutto così bello. Poi la scrivente guarda il pavimento che ora riveste la cucina e il corridoio: piastrelle di Caltagirone dal disegno delicato, luminose, decorate a mano. Operai e piastrellista dell’impresa erano rimasti senza parole quando le avevano viste. E tra pochi giorni, magari, una pentola piena d’acqua cadrà dalle mani di una signora ucraina e sbreccerà questa meraviglia. Forse le sbrecciature saranno tante. “Vabbè – pensa lei – vuol dire che a ogni sbrecciatura mi dirò: è stata una granata russa”.

Intanto i soldi della liquidazione sono finiti, a causa della semi-ristrutturazione con cui è riuscita ad avere un’abitazione bella, bellissima, come la voleva lei per passarci la vecchiaia, se ci arriverà. Con la sua pensione ce la farà a mantenere gli Ucraini? E per quanto tempo? Chi scrive guarda con amore anche i mobili di famiglia, prestigiosi per chi se ne intende, i quali arredano il suo soggiorno luminosissimo, altro luogo dalle piastrelle meravigliose, arredano in parte la sua camera da letto e in gran parte la camera di suo figlio, al quale la nonna li ha in verità lasciati tutti. Che succederà a questi mobili se le daranno un bambino (con la mamma, certo)? E allora si sente proprio scoraggiata. E ancora: la burocrazia, l’assistenza sanitaria, consumi e bollette triplicati, tutto il resto. Tutto il resto: come minimo addio ai tre mesi in Sicilia, quest’anno, a meno che i due Ucraini non abbiano voglia di venire con lei nella casa semidiroccata che fu dei suoi nonni e che il cugino comproprietario cerca di portarle via con tutti i mezzi più ignobili. Tanto gli Ucraini sono abituati ormai alle case semidiroccate, no? Però lei dovrebbe scarrozzarli avanti e indietro abitazione – mare, perché la casa è in collina e non ci sono mezzi pubblici. Poverina lei!

Poi alza la testa: eh no, poverini loro! Se glieli daranno non dovrà essere solo cortese, dovrà essere affettuosa, ascoltarli quando avranno voglia di parlare, confortarli, con mitezza e tenerezza sempre. Ripensa al fatto che ha telefonato alla Comunità di Sant’Egidio senza preavvisare sua sorella, malatissima, che abita nell’appartamentino porta a porta con il suo; e senza preavvisare nemmeno suo figlio, che ama tanto l’appartamento di famiglia ed è contento che la sua stanza sia stata preservata. Quando li ha informati del suo gesto temeva di sentirsi rimproverare, temeva che le dicessero che è un po’ matta. Invece nessuno dei due ‘ha fatto una piega’: benissimo, aspettiamo i profughi ucraini, certo. Che meraviglia avere dei familiari che hanno ereditato la virtù dell’accoglienza! Il figliolo oggi quarantenne, stimato professionista, non l’ha mai criticata per il fatto che durante il percorso educativo gli predicava: “Siamo di passaggio. Le nostre cose non sono nostre, punto e basta. Dobbiamo sentircene amministratori che fanno del loro meglio e le mettono in valore per tutti”. Però, sia ben chiaro, la scrivente aspetta i profughi a braccia aperte e intanto spera che a lei non li diano.

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