Ordinarie vite dei migranti? La non ordinaria storia di Cuscì

Cuscì non era il suo vero nome. Il nome vero di questo giovane Africano originario del Sudan non era pronunziabile da noi Italiani e pertanto si rese necessario un nomignolo. La sua famiglia era cattolica, e per questo motivo aveva subito persecuzioni efferate da parte degli “estremisti islamici”. Alla fine, dopo  che i tre figli maschi maggiori erano stati torturati e massacrati, e dopo che le due femmine  erano state rapite, seviziate e ridotte a schiave sessuali dei miliziani, madre e padre avevano deciso di tentare il “grande viaggio”. Altre speranze non c’erano. Sa Dio come, camminando soprattutto di notte, erano riusciti ad arrivare sulle coste libiche. Avevano venduto tutto, e il poco denaro raccolto era bastato a stento per convincere gli scafisti a caricarli su una barca, o meglio, su un gommone.

Durante la traversata la precaria navicella cominciò a imbarcare acqua e gli scafisti sentenziarono con durezza che occorreva gettare in mare almeno tre persone perché la imbarcazione (meraviglioso eufemismo) potesse avere la speranza di proseguire il viaggio. I nomi furono sorteggiati. Toccò ai due genitori di Cuscì e a un altro, senegalese. Gli scafisti afferrarono i tre sventurati e li buttarono in mare. Quindi uno dei due si rivolse a Cuscì chiedendogli: «Che vuoi fare tu? Vuoi restare con i tuoi genitori o vuoi continuare il viaggio sulla barca?». Il padre del ragazzetto, mentre annaspava, urlò: «Resta sopra la barca figlio mio. Tua madre e io ti diamo la nostra benedizione. Prendi questo anello, che io ricevetti da mio padre, e portalo sempre». Con uno sforzo sovrumano l’uomo si tolse l’anello e lo gettò nel gommone. «Figlio amatissimo» gridò la madre rantolando «Non guardare mai indietro. Guarda avanti, verso l’Europa. Vivremo in te».

Cuscì piangeva a goccioloni, sebbene stesse molto attento a non fare il minimo movimento. Non si girò mai a guardare indietro, verso il punto in cui il mare, quasi certamente, aveva inghiottito i suoi. Gli scafisti presero terra dalle parti di Pozzallo, senza che nessuna motovedetta italiana li avesse intercettati. La gente scese dal gommone lentamente, per la fatica del viaggio. Seguendo le istruzioni che gli aveva dato suo padre ancora prima della partenza Cuscì, appena mise il piede a terra, cominciò a correre a perdifiato risalendo l’altura, dietro la quale doveva esservi la strada provinciale. Era cencioso, ma una macchina sopra la quale viaggiava una coppia di persone mature si fermò e lo fece salire. Cuscì parlava un buon inglese e riusci a spiegare sinteticamente, a quel marito e moglie insegnanti entrambi, le sue traversìe. La buona signora ne fu toccata fino a piangere a dirotto. Suo marito chiese al ragazzino: «Ma perché sei fuggito a quel modo, quasi tu avessi paura degli altri migranti che avevano viaggiato con te?». «Non avevo paura di loro ma delle bande di mafiosi con cui gli scafisti sono in contatto. Spesso i bambini e i ragazzini privi di accompagnatori, se le imbarcazioni non vengono intercettate dalle motovedette della guardia costiera, sono consegnati ai trafficanti di organi».

I due signori accompagnarono Cuscì (non gli era ancora stato affibbiato questo nomignolo) alla polizia. Dopo le prime formalità il ragazzino fu portato in un centro di raccolta in cui si trovavano diversi minori non accompagnati. La coppia di insegnanti chiese di potere avere in affidamento quel giovanottino. «Credo che nel merito non ci saranno problemi, ma ci sono le lungaggini burocratiche» disse il commissario. E suggerì: «Se siete convinti di questa encomiabile vostra decisione, inoltrate immediatamente la domanda per l’affido di questo ragazzo sia ai servizi sociali sia al giudice tutelare dei minori. Gli uni e l’altro apprenderanno dell’esistenza di questo ragazzo da voi per primi. Vedrete che ve lo daranno. Avete altri figli minori che coabitano con voi?». I due insegnanti spiegarono di avere due figli, un maschio e una femmina, laureati entrambi ed entrambi in procinto di sposarsi. I due figli convivevano già con i rispettivi compagni-fidanzati.

Dopo poche settimane – poche perché il presidente del tribunale di Ragusa era cugino in primo grado della signora e riuscì a imprimere una forte accelerazione alla pratica per l’affido – Cuscì andò a vivere dai suoi benefattori in un bell’appartamento dentro una dimora storica di Ispica, e gli fu assegnata la camera che era stata del loro figlio maschio. Questi venne subito a conoscerlo, insieme alla sorella, ed entrambi, proprio come i loro genitori settimane prima, furono sedotti dalla sincerità, vivacità e simpatia del piccolo Sudanese. «Caro, non possiamo considerarti un fratello, sei un ragazzo, noi siamo un uomo e una donna con un quarto di secolo sulle spalle, tu fino a pochissimo tempo fa appartenevi a un’altra famiglia. Nulla vieta però che tu sia per noi come un cugino carissimo e benvenutissimo anche se conosciuto tardi». La sorella soggiunse: «Sì, è vero, è proprio vero, mi piace. Tu sei il nostro nuovo cuginetto e perciò ti chiameremo Cuscino, che nell’idioma siciliano significa cugino». Per il ragazzino fu difficile imparare a dire cuscino, all’inizio proprio non ne fu capace, e così a tutti diceva che il suo nome era Cuscì. Si rafforzò in questa, diciamo, scelta, dopo che ebbe imparato la lingua italiana e appreso che in italiano il cuscino era il guanciale del letto o quei bomboloni o ciambelle di stoffa ripieni di morbide piume che si mettono su divani, poltrone, sofà.

I due insegnanti avevano già capito che Cuscì aveva una preparazione generale da terza media conclusa bene, ma non c’erano documenti che attestassero ciò. «Cuscì, secondo noi è meglio che tu trascorra il primo anno di soggiorno in Italia imparando bene la lingua nostra. E imparando anche a scrivere in un italiano corretto. Poi potrai sostenere da privatista l’esame per essere ammesso in terza media e se lo supererai e conseguirai il diploma tra due anni sceglierai quale scuola superiore frequentare». Cuscì riflettè un pochino. In verità aveva sperato di poter frequentare una scuola di madrelingua inglese e proseguire subito il percorso della sua formazione scolastica. A Ragusa non c’era la scuola da lui desiderata; si sarebbe dovuto trasferire solo soletto a Palermo o a Catania e gravare sulle tasche dei suoi benefattori. «Cuscì, non ci pensare alle nostre tasche. Possiamo permetterci questa spesa. Se sei convinto di volere essere ammesso a una scuola di madrelingua inglese ti presenti all’esame di ammissione e prosegui lì la tua education».

Dopo tante sofferenze, però, anche la forte fibra di Cuscì era provata. Aveva bisogno di calore, non voleva lasciare subito gli affettuosi benefattori per vederli al fine settimana e basta. E lo disse loro con sincerità, concludendo: «Va bene babbo 2 e mamma 2, seguirò il vostro consiglio, però oltre che studiare per apprendere l’italiano parlato e scritto vorrei lavorare qualche ora al giorno. Se cercassi un’occupazione a partire da pizzerie e trattorie? Vi consegnerei quel che guadagno, tenendo per me l’argent de poche». «Cuscì, lo studio della lingua è il primo obiettivo. Ci siamo informati. C’è una scuola Inail valida. Lavora pure, ma puoi dare una disponibilità per max 5 ore al giorno. Se trovi questo lavoro il guadagno te lo tieni. Ci pagherai le tue spese, vestiario e tutto il resto, ma da noi sei a casa tua e quindi il tuo vitto, i consumi quantificati nelle bollette, la pulizia della tua camera e via dicendo sarà a carico nostro».

 Cuscì fece il giro, in bicicletta, di tutti i locali di Ragusa Ibla, di Modica, di Scicli, e soprattutto della costa tra Ragusa marina e Pachino. Decisamente a lui portava fortuna Pozzallo. Un ristorante di quella cittadina con terrazzo a mare lo assunse come cameriere per la sera, dalle 19 alle 24. Era capace di vendersi bene, il giovane. Raccontava con sincerità la sua storia di migrante sul gommone e pure che era stato aiutato all’arrivo in Italia da una ottima famiglia di insegnanti, dal commissario Salvatore Collechiaro, dal presidente del Tribunale di Ragusa e via dicendo. Se i due figli della coppia erano stati entrambi studenti modello, Cuscì dette dei punti non a loro soltanto ma a tutti i giovani Italiani che i due insegnanti avevano formato  e formavano.

Andava a scuola ogni pomeriggio dalle 14 alle 18.30, poi andava al lavoro, ove diventò presto il beniamino di tutti, proprietari, colleghi e clienti, poi a letto fino alle 8. e dalle 9. alle 13.30 si dava a uno studio matto e disperatissimo. Il tempo di mandar giù frettolosamente uno spuntino e correva a scuola. Per sua fortuna nessuno dei lavoratori del ristorante e nemmeno i proprietari erano capaci di parlare un buon inglese; ciò rese Cuscì indispensabile. Al contempo, da metà settembre l’altissima stagione finì, e dunque i clienti erano soprattutto gente del luogo o in ogni caso siciliani. Cuscì potè fare molto esercizio di italiano parlato e presto cominciò a parlare in italiano — un italiano sgrammaticato, certo — anche con babbo 2 e mamma 2, persone di grande cultura, che si sforzavano di correggere l’inflessione troppo siciliana del ragazzino. I due insegnanti erano convinti che prima di Natale Cuscì sarebbe crollato per la fatica cui si era volontariamente sottoposto. Essi erano pronti a rivolgergli grandissimi elogi, a esortarlo a lasciare il lavoro e a fare un po’ di sport oltre che a cercare amici buoni, p.e. i giovani che frequentavano la parrocchia, giacché Cuscì era un cattolico devoto.

A Natale Cuscì aveva l’aria stanca ma non crollò. Si concesse alcune ore di svago nei giorni in cui la scuola rimase chiusa. Quando arrivò il momento di dare l’esame finale di lingua italiana scritta e parlata il ragazzino conseguì il punteggio massimo. “Eccellente”, si leggeva nel giudizio stilato dai suoi professori di scuola «e se fosse possibile aggiungere qualcosa in più alla valutazione di assoluta eccellenza sarebbe dovere di questo corpo insegnante aggiungerlo». I figli di babbo 2 e di mamma 2 organizzarono per lo studentino straordinario una gran festa, alla quale parteciparono, oltre a tutti i compagni di scuola di Cuscì, al personale del ristorante (la festa si tenne in quel locale, per gentilissima concessione del proprietario) e ad alcuni giovani della parrocchia anche il commissario Salvatore Collechiaro e il Presidente del tribunale di Ragusa. «No, non complimentatevi con noi» si schernivano babbo 2 e mamma 2 «il solo artefice del suo successo è lui, la sua volontà straordinaria, il suo formidabile desiderio di dare un senso alla morte di tutti i suoi familiari, per i quali prega ogni giorno, dopo aver baciato l’anello di suo padre, dal quale non si separa mai». Cuscì si opponeva: «Io mi sono impegnato molto, è vero, ma senza questa famiglia italiana meravigliosa che mi ha accolto, che mi ha dato affetto, coraggio e fiducia non avrei mai potuto farcela. Nella migliore delle ipotesi sarei uno schiavo del caporalato, come tantissimi altri migranti».

Poche settimane dopo mamma 2 e babbo 2 chiesero al ragazzino di parlare nuovamente del suo futuro: «Tesoro – disse mamma 2 –, ho parlato di te con il provveditore, raccontandogli brevemente la tua storia e portandogli il tuo curriculum scolastico; egli darà il proprio indispensabile assenso qualora tu decida di presentarti da privatista all’esame per la licenza  media. Ottenerla da privatisti è difficilissimo, ma se qualcuno può farcela quello sei tu. Decidi liberamente. Semplicemente, mio marito e io abbiamo pensato che se tu potessi iscriverti da  settembre alle Superiori invece che frequentare la terza media, staresti con ragazzi della tua età, non con dei bambini cresciutelli». Cuscì fu subito entusiasta della cosa, e non perse tempo. Studiò ancora in modo matto e disperatissimo per i mesi di giugno, luglio e agosto, continuando tuttavia a lavorare nel ristorante, il che adesso, nei mesi estivi, costituiva un impegno davvero faticoso.

Ai primi di settembre venne accompagnato dalla sua nuova famiglia a Palermo e per due giorni stette chiuso in una elegante palazzina liberty della Regione insieme a tutti coloro che, dalla Sicilia e dalla Calabria, un centinaio di persone, volevano tentare di conseguire il diploma da privatisti. Scritto e orale di italiano; scritto e orale di matematica; scritto e orale di scienze; scritto e orale di inglese. Il diploma lo conseguirono in tre: un ragazzone il quale in terza media si era ammalato di un brutto male, che era riuscito a sconfiggere ma che lo aveva tenuto due anni lontano dalla scuola, da lui adorata; un signore molto serio sui trent’anni che si era preparato per due anni, intensamente, per questo traguardo che, solo, poteva aprirgli la possibilità di una occupazione dignitosa; e Cuscì, il quale fu il migliore, suscitando naturalmente lo sbalordimento, quasi la incredulità della commissione esaminatrice.

Vi fu poi un consiglio di famiglia, convocato da Cuscì; parteciparono tutti i membri diretti della famiglia 2: «Carissimi, ho voluto che ci foste tutti e vi ringrazio di vero cuore per il fatto che tutti avete aderito. Devo decidere quale scuola superiore frequentare, e fin d’ora vi dico che probabilmente deluderò le vostre attese». Nessuno fiatò; tutti ascoltavano assorti, anche i fidanzati dei figli di babbo 2 e di mamma 2. «Ecco, chiedo perdono se sembrerà che lodo me stesso, ma mi sono fatto la fama di essere una sorta di fenomeno. Mi è capitato che gente sconosciuta mi abbia fermato per la strada chiedendomi se ero il famoso Cuscì, quello che, arrivato qui da un anno su un gommone e senza conoscenze della vostra lingua era riuscito a essere il migliore tra cento privatisti che si sono presentati all’esame per la licenza media». Cuscì si interruppe un po’ emozionato, tanto che due lacrimoni rigarono il suo viso gentile e simpatico. Nessuno degli astanti profferì parola. «Ho capito che ci si aspetta che io frequenti il liceo scientifico, magari lo scientifico senza latino e con una seconda lingua straniera oltre all’inglese. E ci si aspetta che dopo essermi diplomato io frequenti l’università, diventando un super-ingegnere specializzato nelle infrastrutture oppure un informatico che fonderà una start up». Lo sguardo e le espressioni di tutti gli astanti dicevano che in effetti proprio questo ci si aspettava da lui.

«Ebbene, non intendo frequentare lo scientifico e nessun altro liceo in senso stretto. Io sono stato uno sgobbone perché volevo conseguire il risultato a costo di lasciarci le penne. Ma non ho la vocazione dello sgobbone. Non mi interessa diventare ingegnere e neppure un super-informatico. Del resto i ragazzi italiani seri e di buona famiglia hanno un bagaglio di conoscenze inerenti all’Occidente infinitamente superiore al mio e i migliori tra loro mi surclasserebbero. Lavorando nel ristorante ho appreso tantissime cose, anche su me stesso. Io voglio lavorare molto pragmaticamente nel settore turistico, voglio diventare un bravo cameriere e un bravo cuoco. Dunque voglio frequentare l’istituto alberghiero e, per come la vedo adesso, dopo aver conseguito il diploma mi metterò a lavorare sodo, senza andare all’università. Durante l’estate, quando non c’è scuola, vorrei proprio fare degli stages, sia nei grandi alberghi che nei resorts, mare, montagna, laghi. Vorrei apprendere bene altre due lingue, oltre all’inglese, direi lo spagnolo e il tedesco oppure il tedesco e il francese». Cuscì tacque; con un gesto simpatico fece capire che aveva finito e che si aspettava le domande, i rilievi e le obbiezioni del pubblico.

Parlò mamma 2: «Tesoro, saremmo dei matti, e cretini per di più, se cercassimo di tarparti le ali, a te che hai dimostrato una incredibile capacità di impegnarti. Puntare al turismo è una scelta ottima, ma c’è solo un punto che non comprendo: vuoi diventare un super-cameriere o un cuoco di classe? All’Istituto alberghiero dopo due anni promiscui al massimo si deve fare una scelta e specializzarsi. I camerieri credo che concludano prima il percorso di formazione, cioè in tre anni e non in cinque». Intervenne allora, dopo avere chiesto riguardosamente il permesso al babbo 2, il fidanzato della figlia, il quale dopo aver frequentato lo scientifico si era laureato in scienze turistiche e stava facendo carriera come direttore di grandi alberghi: «La mamma 2 ha ragione Cuscì. Nessun albergo, nessun resort, nessun ristorante può assumere una persona al contempo come cameriere e come cuoco. Qual è il tuo problema?». Cuscì tirò fuori subito le ragioni della sua indecisione: «Ecco, a me fare il cameriere piace perché si sta a contatto con i clienti. Se ti prendono in simpatia ci scappano delle gran risate e delle mance generose. Il cuoco invece sta sempre in cucina, con lo staff degli aiutanti magari, ma non ha contatti con l’esterno». Il fidanzato della figlia riprese la parola: «Cuscì, studia bene nel triennio e poi nel biennio specializzati come cuoco di classe. Si guadagna moltissimo. Inoltre perfino in un Paese ingessato e attardato come l’Italia nel turismo si deve fatturare. Va avanti chi sa portare i denari all’azienda. Al limite dopo aver lavorato un po’ come cuoco potrai abbinare a questa attività la gestione del personale e, se lo vorrai, potrai intraprendere una carriera come la mia. Occorre essere disponibili alla mobilità interregionale ma tu sei un tipo sveglio e moderno. Ho a che fare con tanta burocrazia, ma quella ce l’hanno anche i proprietari di ristoranti e le figure analoghe. Un giorno magari ci metteremo in società, diventando imprenditori di noi stessi e fondando un’attività nostra». Cuscì era raggiante. Alla fine del secondo anno di scuola, andò durante l’estate sul lago di Como a fare uno stage a Villa La Cassinella, come cameriere addetto a risolvere ogni problema dei clienti e a esaudirne ogni desiderio. Serviva anche le colazioni e i pasti per chi li richiedeva. L’anno successivo fu aiuto-cuoco a Venezia al Danieli. Fece poi alcune esperienze in Francia, in Spagna e in Germania, sempre in luoghi molto esclusivi. Il suo inglese era perfetto, la sua conoscenza del francese, dello spagnolo e del tedesco molto buona.

Dopo che si diplomò le offerte di lavoro fioccarono, da tutta Europa. Preferì restare per un po’ in Sicilia. Fu assunto dal più importante e lussuoso Club Méditerranée del Mare nostrum con un contratto costruito apposta per lui, affinché il suo talento potesse dispiegarsi in pieno, con ciò recando profitto all’azienda: lavorava 5 ore al giorno come chef da alta cucina, specializzato tuttavia in piatti italiani e siciliani, e 3 ore ½ al giorno come responsabile del personale dell’intero resort. Si stancava, certo che si stancava, ma era felice. Baciando ogni sera prima delle preghiere l’anello di suo padre, che aveva sempre al dito, sussurrava, quasi con pudore: «Mamma, papà, le vostre estreme speranze sono state esaudite. Ringrazio di questo il Signore».

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