Il generale Patton, l’operazione Husky e Vincenzo (il papà di Eli)

Il generale Patton, l’operazione Husky e Vincenzo (il papà di Eli)

Premessa per chi è nato nel terzo millennio.

L’operazione Husky, cioè lo sbarco aero-navale degli alleati (Inglesi, Americani e anche Canadesi) in Sicilia avvenne nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, in gran parte sulla silenziosa spiaggia “ra Marchisa” di Cassibile (SR). Il Generale George Smith Patton, Comandante della settima armata americana, rivaleggiò con l’omologo inglese Bernard Law Montgomery, comandante della ottava armata, riuscendo ad affermare testardamente la propria superiorità. La spedizione si concluse il 17 agosto del 1943, quando l’esercito tedesco, sconfitto, lasciò l’isola e si ritirò in Calabria.  

6 giugno 1944 sbarco in Normandia.

27 luglio 1943: l’addetto al laboratorio Vincenzo Brancifora bussò rispettosamente alla porta del direttore dell’Istituto di fisica in cui lavorava e in cui era anche studente. Lui e il direttore erano i soli che non fossero scappati alla notizia dello sbarco. «Avanti!». Lo studente e lavoratore entrò, tremante. Il direttore era seduto alla sua scrivania come se quella fosse una giornata normalissima. «Signor Direttore, gli Americani stanno occupando l’Istituto, il generale Patton mi ha detto di venirglielo a riferire e ….». «Brancifora, ma stiamo scherzando! Impedisca a questa soldataglia di installarsi qui. Che se ne vadano! Ha capito? Avanti, si dia da fare, compia il suo dovere, in fretta!». «Signor Direttore, sono parecchie decine, armati fino ai denti. Il generale Patton ha deciso di installare qui il quartier generale americano a Palermo perché in Istituto abbiamo molti strumenti per loro utilissimi, a partire dalle radio». Vincenzo riprese fiato: «Sono personalmente avverso al fascismo e ritengo che ci abbia trascinato in una guerra tragica, odiosa e ormai persa. Ma sono un Italiano; dunque, se Lei persevera negli ordini che mi ha dato, andrò a farmi ammazzare. Dopodiché Lei dovrà vedersela direttamente con gli Americani; il generale Patton Le intimerà di stare qui giorno e notte e di tenersi sempre pronto a eseguire i suoi ordini». «Va bene Brancifora, va bene, ho capito. Non si faccia ammazzare inutilmente, stia invece a disposizione del nemico e cerchi di evitare che sciupino o distruggano i nostri preziosi strumenti. Lei sarà più utile così alla patria. E ora vorrei andarmene se il nemico lo permette. Sono gravemente malato di cuore». Vincenzo ammutolì stupefatto. Non aveva mai saputo che il signor Direttore fosse cardiopatico. Forse lo era diventato nell’ultima mezz’ora?

La porta dello studio fu aperta bruscamente. Entrò il generale Patton accompagnato da due soldati con il mitra spianato. Il Direttore divenne bianco come un cencio lavato, gli occhi colmi di terrore. Il generale non usò le buone maniere: «Vigliacco, fifone, se ne vada, subito, prima che mi venga voglia di passarla per le armi! E non torni più qui se non dopo la fine della guerra. Non so che farmene di uno come lei! Per noi lei sarebbe solo d’intralcio. Fuori ho detto, è ancora qui???». Il Direttore si fece piccolo piccolo e corse via prima che Patton cambiasse idea. Il generale si rivolse con un largo sorriso a Brancifora, che non si era mai mosso: «Tu invece sei di tutt’altra pasta. Hai coraggio, sei un vero uomo e sei antifascista». Poiché Vincenzo lo guardava trasecolato il grande militare gli spiegò: «Sì, abbiamo origliato. Noi dobbiamo sempre spiare, perché solo così riusciamo a capire di chi possiamo fidarci e di chi non possiamo fidarci. Ma come mai hai ancora un lavoro se sei antifascista, poiché se ne saranno accorti tutti no?». «Vede signor generale, in Sicilia contano più di ogni altra cosa i rapporti di parentela e quelli di amicizia. Io non ho mai fatto aperta propaganda contro il regime fascista, perché mi avrebbero arrestato e qui non sarebbe servito a niente. Non ci sono organizzazioni antifasciste clandestine e sufficientemente strutturate, come ce ne sono invece al Centro e al Nord. Il mio antifascismo era evidente perché non sono mai andato a una rassegna o a una parata di quelle imposte dal regime agli studenti universitari, non mi sono mai iscritto al GUF e via dicendo. Più di una volta sono stato convocato nell’ufficio del gerarca che è di fatto ministro plenipotenziario di Mussolini in questa città e il gerarca mi ha ammonito e quasi minacciato. Ogni volta, però, un mio zio prete e parroco è andato dal gerarca a impetrare per me il perdono e quindi non sono mai stato arrestato». Patton si fece una grassa risata: «Ci hanno detto che i preti cattolici contano moltissimo qui. Addirittura, proprio in Sicilia ce n’è uno che ha fondato un movimento politico cattolico, antifascista, ora vivo sotterraneamente, per il quale si prevede un grande futuro nel vostro Paese, dopo che sarà libero dai nazi-fascisti».

Mentre parlava con il lavoratore e studente Patton impartiva ordini ai suoi uomini, con il fare autoritario di chi esercita saldamente il comando e sa che verrà obbedito, costi quel che costi. Ordinò che nelle aule si allestissero camerate con letti da campo, che si andassero a riempire d’acqua tutti i bidoni che lo squadrone aveva con sé, che si pulissero bene i soli tre cessi presenti nella palazzina, che si trovassero e si portassero nella palazzina almeno quattro frigoriferi e almeno due cucine con annesse bombole a gas. E qui si rivolse nuovamente a Vincenzo: «Puoi aiutarci a non perdere troppo tempo?». «Sì posso. Vi darò il mio frigo e la mia cucina personali, che sono nella mia camera a Tommaso Natale, un sobborgo di Palermo. Poi condurrò i Suoi uomini a un deposito custodito dove la gente che ha perso casa nei bombardamenti ha accatastato masserizie e mobili che è riuscita a salvare. Lei sarebbe disposto a pagare qualche dollaro per le cose che i Suoi porteranno via?». Patton lo guardò con espressione sarcastica e quasi incredula, poi si rilassò e rispose: «Sì, pagheremo. Allora va’ via con i miei uomini. Non oseranno torcerti un capello. Avranno l’ordine di seguire le tue istruzioni. Però entro l’ora di cena torna, cenerai con me. Desidero continuare la conversazione».

 Vincenzo aveva una paura immensa, e ciò si percepiva, tanto che i soldati americani seduti nella stessa camionetta in cui avevano fatto sedere lui lo rincuoravano, convinti che egli avesse paura di loro. Il giovane ringraziava e pensava tra sé e sé: «Certo c’è del vero nella persuasione diffusa che gli Americani siano dei sempliciotti. Questi non si rendono conto che mostrandomi in giro con loro sto finendo inevitabilmente nel libro nero dei fascisti e dei nazisti, gente che non scherza davvero. Alla prima buona occasione mi piglieranno e mi tortureranno. Devo quasi sperare che mi ammazzino alla svelta in un agguato, punto e basta. Ma come farà mia madre senza di me? Una povera vecchietta analfabeta. E come faranno i miei fratelli minori, così ignoranti e inesperti? Meno male che Salvatore è in Russia. Speriamo che se la cavi. Ma Jole, Pippo e Domenico potrebbero finire nei guai a causa mia: perché sto aiutando gli Americani. Basta con questa tortura mentale. Andiamo al deposito e che la fortuna mi assista, per una volta».

Sì, rifletteva, lui era un poveraccio. Suo padre era morto quando lui, il maggiore dei cinque figli, aveva sei anni, e se non fosse stato per lo zio parroco la sua famiglia avrebbe letteralmente fatto la fame. Sua sorella, di tre anni minore di lui aveva assunto la gestione della vita domestica all’età di 12 anni perché la madre, una donna nata vecchia, oltre che analfabeta e incapace di fare alcunché, era affetta da una malattia che aveva deformato i suoi polsi, le sue mani, e anche gli arti inferiori. La sorella era molto dotata e molto sveglia. Avrebbe voluto studiare anche lei, ma tutti gli anziani della famiglia si erano opposti. E lui, Vincenzo, era stato vile, non le aveva dato nessun supporto, malgrado le suppliche della poverina, che aveva perfettamente ragione quando diceva di voler diventare almeno maestra elementare, per essere economicamente indipendente. Peraltro, se lei avesse studiato, chi si sarebbe occupato dei fratellini, della mamma, della prozia? Così, lavorando come una schiava per i suoi – lustrava la casa, che era composta da due appartamenti comunicanti, ordinava la spesa, cucinava, lavava i panni di tutti e li stirava, tagliava e cuciva meglio di una sarta, assisteva la prozia Ciccina, zitella e proprietaria di uno dei due appartamenti, che era andata fuori di testa – la sorella aveva un ruolo fondamentale nella famiglia e una fettina di potere.

La fortuna lo assistette: al deposito trovarono quattro frigoriferi e due cucine con annesse bombole. Vincenzo trattò il prezzo e i soldati caricarono tutto su un camion, anche alcune pentole e alcuni tegami. Poi si rivolsero alla loro guida «And now let’s go to Tommaso Natale».  «No, we don’t need to go to Tommaso Natale. We’ve found all the kitchen’s furniture your General had ordered to find. Now we need food. We can find it only on the black market. Do you agree to come with me and look for people involved in the black market?». I soldati furono d’accordo, certo. Patton aveva dato l’ordine di obbedire a Vincenzo. Questi condusse la truppa nei tre principali mercatini (Ballarò, la Vucciria e Il Capo) in cui gli ambulanti di Palermo vendevano derrate alimentari. Erano deserti. Per tre volte Brancifora bussò all’uscio di altrettante catapecchie, una per mercatino. Agli omini unti e bisunti che vennero ad aprire la porta il giovane disse di tirar fuori pasta, pane, zucchero, caffè, olio, uova, cipolle, aglio, boatte di pomidori pelati e bottiglie di passata di pomodoro, latte, pazienza se in polvere ma meglio fresco, e anche sale, frutta fresca e secca e biscotti. Pagò con i dollari che gli aveva dato il signor Generale e tra le urla di gioia dei soldati anche tutto quel ben di Dio fu caricato sul camion. Poi i soldati, che evidentemente si erano messi d’accordo, a una voce si rivolsero al Siciliano: «Vincenzo, Vincenzo, we are young men, we need women. Where are the whore houses?». Il poverino ne fu smarrito:  «Gentlemen, I’m not sure that General Patton would agree with it». Rifletté un momento: «I suggest that the two or three soldiers go back to the dirty men who have given us the food. You ask them for “bordello”. They will understand and give you the informations you need. Take care!»

Si fece ritorno in via Archirafi, alla palazzina divenuta quartier generale. Patton diede a Vincenzo una gran pacca sulla spalla, mentre si faceva un’altra grassa risata: «Ma bravo! Bravissimo! Hai superato le mie attese! Questa sera prepari il condimento per la pasta. I soldati sono entusiasti. Non ne possono più di scatolette di carne e altra robaccia a lunghissima conservazione. Allora tu sei nel giro del mercato nero?». «No, signor Generale. Nel poco tempo libero do lezioni di matematica al figlio dei miei vicini. Il papà è al confino per mafia. Non potendomi pagare mi ha dato l’indirizzo dei principali trafficanti di derrate alimentari e a loro ha scritto di trattarmi sempre bene». Vincenzo preparò un ottimo sugo all’arrabbiata, proprio piccante. Fece cuocere al dente la pasta e, aiutato da un paio di soldatini giovanissimi, la servì alla truppa, ciascuno presentandosi con la propria scodella e le proprie posate. Pensava di servire anche se stesso quando Patton entrò nel locale e gli disse: «Noi due andiamo a mangiare fuori sul mare, a Mondello, nel ristorantino in cui fino ad avant’ieri mangiavano gli ufficiali tedeschi». E così fu, con l’accompagnamento di una bella scorta, certo. Passarono accanto al porto. Sul mare galleggiavano corpi di persone morte.

«Quindi hai mandato i miei uomini a passare il tempo libero nei bordelli? Sei parente di qualche ruffiana?». «Sul mio onore no, signor generale! Non sono mai entrato in un bordello. Sono cattolico e non frequento donnine allegre. Avrei dovuto immaginare che anche tra i Suoi uomini ci sono coloro che fanno a Lei rapporti confidenziali sui commilitoni. In ogni caso ho solo indicato come fare per trovare i bordelli. Ai soldati è proibito frequentare donne mentre hanno l’ora di libertà?». «Ufficialmente sarebbe proibito, è ovvio. Però tolleriamo che vadano a fottere per evitare che il loro morale diventi troppo basso. Purché questo avvenga appunto nelle ore in cui sono liberi». Vincenzo non potè fare a meno di pensare che anche il gran capo probabilmente fotteva, nei minuti liberi. Patton gli lesse nel pensiero: «Io non vado nei bordelli. Mi faccio portare tre o quattro ragazze a tarda sera dai due o tre uomini di cui posso fidarmi ciecamente, perché conosco i loro segreti inconfessabili, e scelgo quella che mi piace di più per la notte. Sto attentissimo a non dire nulla di nulla, a miagolare e basta».

Il Generale si interruppe come per riprendere fiato poi proseguì: «Ma parliamo di cose meno triviali. Tu dove hai appreso l’inglese? La mia lingua? Hai un buon vocabolario e conosci la grammatica, ma la tua pronuncia fa schifo. Se non avessi sentito parlare tanti contadinacci siciliani prima di conoscerti non ti capirei». Brancifora divenne più rosso di un gambero: «La conoscenza dell’inglese è indispensabile per chi studia fisica. Una mia compagna di corso che parla un inglese eccellente mi dà lezioni su richiesta del nostro comune maestro». Patton sghignazzò: «A giudicare dal rosso paonazzo che si è dipinto sulla tua faccia la signorina non è una semplice compagna di corso. Sei innamorato pazzo, vero? Per appartarvi avete trovato la scusa dell’inglese: eccellente». Brancifora reagì con veemenza: «Signor Generale mi faccia ammazzare, ma io non Le permetto di parlare così di una signorina onestissima e molto devota al comune maestro, amico vero di suo padre che non c’è più». Patton si divertiva: «Che male c’è a voler bene a una bella ragazza e a desiderare di poterla baciare?». «Io provengo da una famiglia di poveri analfabeti. Ho potuto studiare perché lo zio prete mi ha inserito nei collegi dei Salesiani. Capiva che ero dotato per gli studi e sperava che mi facessi prete dopo la maturità. Intanto lo zio sovveniva la mia famiglia. Dopo la maturità invece mi sono iscritto all’Università per studiare fisica, la mia passione. In realtà non avevo i soldi per mantenermi agli studi, ma fui notato molto presto dal maestro. Egli mi ha fatto avere il posto da tecnico di laboratorio affinché potessi lavorare e studiare insieme. Quanto alla signorina, mi sdebito con lei dandole frequenti spiegazioni su punti del programma di fisica che a lei riesce difficile capire».

Patton era impressionato: «Ma tu sei un Americano, non un Italiano; sei un autentico self made man. Laureati quanto più in fretta possibile, sposa la ragazza che ami e venite subito in America tutti e due. Ti prometto che vi farò diventare borsisti in una Università prestigiosa. Io mantengo sempre le mie promesse, e se mi impegno per ottenere qualcosa la ottengo, te lo assicuro». «Signor Generale, La ringrazio con tutto il cuore. La signorina mi dice sempre lei pure che devo andare a perfezionarmi in fisica negli USA. Dunque se questa orribile guerrà finirà è possibile che io faccia domanda per una borsa di studio negli USA.  La signorina, però, non sarà mai mia moglie. Lei proviene dall’alta borghesia della cultura: suo nonno fu Rettore di quest’Ateneo, poi lo fu suo padre; a un suo antenato deve il proprio nome uno dei più importanti ospedali di Palermo».  «E allora? Qui le persone sono giudicate come i cani? Hanno un pedigree che dipende dalla purezza del sangue degli antenati?» Vincenzo sospirò profondamente; fu un sospiro che rivelava il suo tormento interiore: «Signor Generale, Lei è riuscito a trovare un paragone perfetto. Sì, le persone qui sono valutate alla stregua dei cani. Non solo nell’aristocrazia, ma anche nella borghesia medio-alta si preferisce dare una figlia in moglie a un uomo che provenga da una famiglia di notabili, anche se notoriamente è un perdigiorno e uno scapestrato, invece che a un uomo il quale si è fatto avanti e lavora molto seriamente ma proviene da una famiglia del basso popolino». Patton era interdetto: «Vincenzo, insisto, la Sicilia e l’Italia non ti meritano. Quando la guerra sarà conclusa dovrai trasferirti negli USA. Credimi figlio mio. La democrazia liberale americana è il posto giusto per te».

Brancifora fu quasi un pochino commosso dal tono paterno assunto dal Generale. Questi proseguì: «Ragazzo, devo passare alle cose serie. Ovviamente abbiamo degli interpreti i quali capiscono non solo l’italiano ma anche il dialetto siciliano. Non ho ancora compreso cosa sia un dialetto ma non importa. Però mi fido molto più di te che non di quegli pseudo-traduttori che, lo sappiamo bene, sono in relazioni strette con la mafia. La mafia fa gli interessi suoi, non quelli degli Alleati. Non c’importa che dopo la guerra si dica che gli Americani sono venuti a patti con la mafia. C’importa che ora, qui, subito, troviamo informazioni atte a farci comprendere esattamente come pensano di reagire i Tedeschi e i fascisti al nostro sbarco e al nostro assalto. Sei disposto a tradurre in dialetto le nostre domande alle persone che rastrelleremo e a darci esattamente le loro risposte?»  «Sì signor Generale, a una condizione però: che nessuno di questi miei compatrioti, anche se collusi con il nazismo e il fascismo, perda la vita a causa mia». «D’accordo, hai la mia parola. I collusi, come dici, saranno fatti prigionieri e inviati nei campi di raccolta. Ho bisogno di te anche nell’Istituto. Sei molto più bravo dei miei tecnici. Occorre che tu faccia funzionare le radio e altri strumenti utili alla nostra causa». Vincenzo annuì.

Per diversi giorni il lavoratore e studente girò per la città – ma sarebbe più esatto dire per le rovine ancora fumanti della città – sulle camionette degli Americani, i quali andavano a stanare i resti ancora cospicui dei fascisti e dei nazisti prima che avessero il tempo di riorganizzarsi. Li trovavano all’interno di casupole situate in budelli di periferia laida – si trattava delle abitazioni abbandonate dal popolino che era andato a rifugiarsi in campagna, dove poteva, per salvarsi dalle bombe –, e li trovavano anche in grotte e cave fuori città. In verità le confidenze che fascisti e nazisti avevano fatto alle ragazze dei bordelli risultarono a quel fine utilissime. Grazie alla intermediazione di Brancifora, poi, il quale interrogava gente del popolino che aveva dato aiuto ai militari italiani e tedeschi, beninteso in cambio di generi alimentari, fu possibile reperire parecchi depositi nazi-fascisti di armi, armi spaventose, che avrebbero seminato sterminio e terrore se utilizzate. Quando le camionette sulle quali viaggiava attraversavano quel che restava di Palermo, Brancifora piangeva a goccioloni. Distruzione, dappertutto. I palazzi eleganti di via Crispi in cui erano stati gli appartamenti posseduti dalla famiglia della signorina, in uno dei quali lei era vissuta con la madre vedova e i fratelli, tutti quei palazzi erano stati rasi al suolo. Via Maqueda, via Ruggero Settimo, via Libertà, via Dante, corso Vittorio Emanuele, via Roma, via Messina marine, se anche qualcosa era rimasto in piedi erano tuttavia piene di mucchi giganteschi di macerie.

Vincenzo piangeva a goccioloni e tra sé pensava: «Queste vie elegantissime, che avevano fatto di Palermo una città magnifica fino a pochi anni fa, ormai non ci sono più, non ci sono più quei palazzi così signorili. Chissà quanta gente sotto quelle rovine. Per noi Siciliani, forse per tutti gli Italiani, è finita. Non sarà possibile ricostruire. Dovremo anche pagare i debiti di guerra. Maledetto il re, maledetto Mussolini, maledetto il fascismo. Per i tuguri della poverissima gente pazienza. Meglio se si riuscisse a rimandare i miserabili in campagna e a tenere in città solo coloro che hanno un’arte, un mestiere, e che sono in grado di produrre cose utili, falegnami, calderai, panificatori, gente così». Poi provava un lieve senso di sollievo notando che parecchi, grazie a Dio, dei monumenti storici più prestigiosi erano intatti o quasi, dalla Cattedrale alle chiese di San Domenico, di San Giovanni degli Eremiti, della Martorana, a tanti prestigiosi palazzi dell’alta nobiltà che si affacciavano sul mare, ai quattro canti del quartiere Loggia, e molti altri ancora. Si domandava se gli Americani avessero voluto risparmiare intenzionalmente quelle meraviglie. Inutile chiedere ragguagli ai soldati e agli ufficiali; avrebbe dovuto porre la domanda al generale Patton.

Il generale Patton si assentava spesso e stava via anche giorni e giorni. Quando tornava in via Archirafi non raccontava nulla ma Vincenzo capiva bene che era andato a guidare i suoi che dovevano scontrarsi con le milizie fasciste e naziste. Quando il gran capo era nella palazzina Vincenzo si sentiva tranquillo. Quando era assente viveva nella paura; temeva che i soldati rimasti, molto nervosi, attaccassero briga con lui, che era pur sempre un Italiano, uno della nazione alleata dei nazisti, e che lo uccidessero facendo poi scomparire il suo corpo. Un giorno Brancifora stava armeggiando con le radio disposte nella sala radio dell’Istituto. Era evidente che trattava con particolare riguardo una radio vecchia, malmessa, che proprio non si capiva a cosa potesse ormai giovare. Un soldato nervosissimo trovò il pretesto per attaccare briga; alzò una grande mazza di ferro e fece per abbassarla con tutte le sue forze sulla radio. «Noooo!» gridò lo studente e lavoratore, balzando a frapporsi tra la mazza e la radio. Sarebbe morto di sicuro se, quando il soldato stava per abbattere il fendente, non si fosse sentita una voce aspra e imperiosa: «Fermo idiota, traditore!! Hai sentito cosa ti ha detto? Non toccare quella radio!». Patton era rientrato appena in tempo. Il generale proseguì sferzante: «Avevate l’ordine di non fare del male per nessuna ragione a questo valoroso antifascista. Sei un traditore. Verrai fucilato immediatamente. Faremo giungere la notizia alla tua famiglia». Il soldato scoppiò a piangere, mentre Brancifora si buttò in ginocchio davanti a Patton: «Signor Generale, La prego, risparmi la vita di quest’uomo. Se verrà ammazzato la mia vita con voi sarà sempre in pericolo. I Suoi uomini mi odieranno. Faranno di tutto per vedermi morto». Patton guardò Vincenzo con ammirazione: «Sei proprio il più intelligente. Tu ti saresti sentito responsabile della morte di questo scemo ma hai capito che pregarmi di graziarlo sarebbe stato del tutto inutile. Così ti sei fatto venire l’idea dell’assai probabile ritorsione degli altri soldati contro di te». Patton si girò verso lo “scemo”: «Sarai incarcerato per un mese, e dopo starai sempre in prima linea». Lo “scemo” annuì. Mentre veniva portato via bisbigliò all’Italiano un «thank you», che tutti gli astanti udirono.

«Perché diavolo stavi per farti ammazzare per quella radio che non serve più?». Vincenzo rispose: «perché l’ha costruita con le sue proprie mani Guglielmo Marconi. Venne a Palermo per un congresso, prima della guerra e quando io ero un ragazzino, e fu talmente contento sia dell’accoglienza ricevuta sia del livello scientifico del congresso che regalò questa radio al signor Rettore. Si trattava di un dono personale, ma il signor Rettore volle che fosse collocata qui, in pratica la donò a sua volta all’Istituto». Al che Patton: «Il Rettore era il padre della signorina?». «Sì signor Generale, ma Le assicuro che questo non c’entra con il mio intervento per salvare la radio. Per noi fisici essa è un monumento, uno straordinario monumento della nostra disciplina e delle scienze tutte». «Credo di capire, anche se la mia mentalità è ben diversa. Bene, ora andiamo a pranzo a Mondello. Guarda che domani pomeriggio a partire dalle 15.00 avrò bisogno della sala radio tutta per me e senza intrusi tra i piedi, chiaro?». «Sì signor Generale».

Mentre nel pomeriggio Brancifora era fuori con i soldati, sulle camionette, l’autista della camionetta in cui era seduto si voltò rapidamente verso di lui e gli disse, in modo scandito: «Vincenzo, tu puzzi. Tu non ti lavi abbastanza e non lavi abbastanza spesso la tua biancheria. Non hai notato che il Generale si avvicina a te meno che nei primi giorni in cui ti ha conosciuto? È sicuramente per questa ragione che “la signorina” non vuole uscire con te anche se ti stima. Abbiamo fatto tra di noi una colletta in tuo favore. Te lo meriti di certo poiché grazie a te il nostro commilitone impulsivo non è stato giustiziato. Dunque ora prima di andare a parlare con gli informatori prenderemo per te biancheria e abiti nuovi e puliti, e anche un paio di scarpe». L’Italiano ne fu sbalordito e tenne la bocca aperta senza profferire parola per diversi minuti. L’autista-soldato continuò: «Cosa credevi? Gli Americani sono generosi e conoscono la riconoscenza. Biancheria, abiti e scarpe sono stati procurati dalle ragazze del bordello migliore. Ora ci passiamo. Prima che ti cambi però ti metteremo nella vasca da bagno e ti striglieremo per bene. Le ragazze poi laveranno la roba che hai addosso ora e te la renderanno stasera. Abbiamo preso un appuntamento al bordello anche per te dalle 22 alle 23.30; è tutto già pagato».

Constatando che Vincenzo era sempre più sbigottito e silenzioso, il soldato che stava sul sedile posteriore si intromise: «Italiano studioso e povero, è una cosa intollerabile che tu non sia mai andato con una donna. Allora, o ti fai prete oppure, se vuoi sposarti, devi fare delle esperienze. Guarda che il piacere delle donne dipende dal modo come si comportano gli uomini. Se tu non saprai dare il piacere alla tua sposa, prima o poi lei ti tradirà. Sarai “cornuto”, e allora dovrai uccidere lei e l’amante per lavare il tuo onore. Non si fa così, qui? Devi fare esperienza non solo per essere sicuro che la tua macchina, cioè il tuo corpo, funzioni bene, ma anche per imparare a toccare nel modo giusto e nei punti giusti il corpo femminile». Finalmente lo studente e lavoratore balbettò: «Grazie»; tre quarti d’ora più tardi pareva un figurino. In quei tre quarti d’ora aveva rivisto nella mente la sua vita recente. Mentre frequentava il liceo classico dai Salesiani aveva badato di più alla sua pulizia personale, perché i preti ci tenevano. Quando si era iscritto all’Università e aveva simultaneamente cominciato a lavorare nell’Istituto, la sorella lo aveva parzialmente scaricato, perché egli aveva orari incompatibili con quelli del resto della famiglia. Dunque si era preso i fuochi, la bombola e il frigo che erano stati della prozia e li aveva sistemati in camera propria. Lavava la sua biancheria una volta alla settimana, perché gli pareva brutto lasciare il sacchetto con i suoi cenci appeso alla maniglia della sua camera, come se la sorella fosse una cameriera. Era già buona abbastanza da tenergli la camera pulita, rifargli il letto, lavare le stoviglie sporche sue e riammetterlo ai pasti del sabato e della domenica. Dunque le donne, non la signorina soltanto, anche le altre studentesse, lo tenevano un po’ a distanza non perché fossero di buona famiglia e snob alla palermitana ma perché lui puzzava. Grazie a questi soldati, ragazzoni alti, belli, dinoccolati, aveva capito. Ma come poteva andare al bordello lui, che era un cattolico devoto? Quasi gli avesse letto nel pensiero, il giovane che sedeva dietro gli disse: «Anch’io sono un cattolico praticante, sai? Funziona così: una volta al mese mi confesso e dico al prete, con umiltà, che sono andato a donne perché lo spirito è forte ma la carne è debole. Piagnucolo, lui mi assolve e posso fare la comunione fino alla esperienza successiva. Farai così anche tu».

Ma quei giovani avevano ragione? Vincenzo non si sentiva attratto dal libertinaggio. Però, se era vero che un maschio doveva non solo constatare di essere “capace” ma anche imparare a procurare il piacere alla sua donna, allora non c’era scampo. Doveva andare al bordello e mandare all’aria parte, solo parte, degli insegnamenti ricevuti dai Salesiani. Non aveva mai pensato, prima, che le donne potessero desiderare il piacere; aveva sempre creduto che per loro l’atto sessuale fosse finalizzato meramente al concepimento e alla maternità. In effetti, però, la Bibbia stessa, Genesi, diceva che la donna si sarebbe unita al marito perché prepotentemente attratta da lui e per quest’attrazione avrebbe sopportato le doglie del parto. E Patton? Brancifora si sentiva ormai quasi un po’ infastidito dall’eccesso di stima del Generale nei suoi confronti. Se avesse davvero potuto scegliere non avrebbe mai aiutato gli Americani ad andare a caccia di nazisti e di fascisti e dei depositi di armi. Ma non aveva potuto scegliere: rifiutare il suo aiuto avrebbe inevitabilmente comportato che lo si trattasse come un nemico da sorvegliare, poiché la sua collaborazione era necessaria per l’uso e la manutenzione di alcuni macchinari; spesso lo avrebbero legato e lo avrebbero picchiato a ogni buona occasione. Era antifascista, ma non fino al punto di fare quel che aveva fatto nelle ultime settimane per tenersi buono il Generale. Era andato a casa sua a Tommaso Natale una volta sola, una settimana dopo l’arrivo degli Alleati, anche se avrebbe potuto recarcisi il giorno stesso o all’indomani della requisizione dell’Istituto; e aveva trovato i suoi familiari preoccupatissimi, quasi certi che egli fosse stato fucilato (la voce che il quartier generale a Palermo era stato posto nel “suo” Istituto si era sparsa). Dunque era anche un pessimo fratello maggiore e un pessimo figlio, lui. Per pura pigrizia non si era recato prima a trovare i suoi familiari. I soldati con cui viveva, invece, scrivevano alla famiglia quasi ogni giorno. Finalmente tutto quel suo rimuginare fu interrotto da una cena frugale e dalla gita al bordello.

L’indomani mattina i soldati, durante una perlustrazione impegnativa, lo festeggiarono per un quarto d’ora abbondante, con tanto di spumante e di torta. La ragazza che si era dedicata per prima a Vincenzo, la sera innanzi, aveva detto che ce n’era voluta per vincere la ritrosia del giovane, ma infine era riuscita a sverginarlo. Poi era stato il turno delle altre due prostitute, le quali gli avevano svelato i misteri del corpo femminile e i modi per prepararlo alla penetrazione. «Bravo Vincenzo», gridavano tutti i giovanottoni, «ce l’hai fatta, hai visto com’è bello? Ora sei un uomo vero e completo». Chi lo sa se le sue prodezze erano giunte all’orecchio del Generale. Se ne sentiva già umiliato: il Gran Capo lo avrebbe sfottuto, mentre prima lo aveva portato sempre in palma di mano.

Alle 14.50, dieci minuti prima rispetto all’ora in cui Patton aveva detto di doversi chiudere nella sala radio, Brancifora entrò un istante in quel locale per togliere tutti gli attrezzi per la manutenzione, affinché non finissero fuori dal suo controllo. Ed ecco che la radio con cui il Generale principalmente comunicava con Londra cominciò a strepitare. Dall’Inghilterra avevano aperto la comunicazione. Brancifora non era vicino alla porta di uscita; questa si aprì di botto e Patton entrò correndo. Il giovane fece appena in tempo a nascondersi dietro un’alta scaffalatura. Si era cacciato in trappola; il capo era stato chiarissimo circa il fatto che tutti dovevano star lontani dalla sala radio quel pomeriggio. Il lavoratore e studente tremava; riusciva a non fare rumore, però, anche perché Patton gridava, sia pure in modo quasi deferente, fatto singolarissimo. Evidentemente stava parlando con il Comandante supremo, forse con tutti e due, quello inglese e quello americano. Vincenzo pregava la Madonna che la comunicazione cadesse, che quel pomeriggio il colloquio non potesse aver luogo; e faceva voto alla Vergine, qualora la sua richiesta venisse esaudita, di non andare al bordello mai più.

Invece si udivano distintamente le voci degli interlocutori del Generale. Questi diceva: «Siamo riusciti a prendere integralmente il controllo in Sicilia. Sono stato a Messina, dopo di me è arrivato Montgomery. Il nemico se n’è andato, si sono imbarcati tutti per la Calabria. No, non è una finta. Hanno perso moltissimi uomini e mezzi. Ho fatto fucilare anche quelli che si erano arresi. Abbiamo bisogno di un rafforzamento del contingente. E vorrei sapere quando sbarcherete nella penisola. Salerno? Vicino a Napoli e a Roma. Ok. Sono certo che tutti gli alti dirigenti italiani scapperanno, anche il re. A quel punto cominceremo a risalire la penisola, cercando di costringere i Tedeschi ad arretrare verso Nord». Qui gli interlocutori espressero opinioni e ordini che Brancifora non riuscì a capire distintamente; poi Patton annuì: «Certo, sono a disposizione, rientrerò in Inghilterra al più presto. Per quando è previsto lo sbarco in Normandia?». Vincenzo tremava. Sperava solo che il Generale, se avesse avuto precisa risposta, non l’avrebbe echeggiata. Invece: «Bene. Nella prima settimana di giugno, dalle parti di Caen. Speriamo che sia possibile una operazione a tenaglia, dalle frontiere italiane e da quelle francesi. Certo. Farò del mio meglio».

Vincenzo decise che aveva udito un segreto troppo importante; da esso dipendevano le sorti della guerra, forse. Se i Tedeschi ne fossero venuti a conoscenza avrebbero potuto correre efficacemente ai ripari. La conversazione era finita. Patton spense la radio e il giovane lasciò tranquillo il suo riparo presentandosi al Generale. «Signor Generale, ero entrato per togliere gli arnesi che io solo so usare. Da Londra hanno chiamato prima dell’orario che Lei mi aveva dato. Non sono riuscito a uscire in tempo. Ho udito tutto. Mi faccia fucilare per favore. Ho udito segreti troppo importanti». Patton era sorpreso e molto accigliato, poi si distese. «Non diciamo sciocchezze. So che starai zitto con tutti. Ecco, prendi questa, l’ho preparata per te, perché sto per partire e le probabilità che io muoia in guerra sono ancora alte. Mi piacerebbe». Il giovane quasi non credeva alle proprie orecchie. Lui, Brancifora, avrebbe usato ogni mezzo per impedire che il segreto giunto a persona che non avrebbe dovuto conoscerlo potesse essere trasmesso ad altri. Ancora quella fiducia sterminata e immensa di Patton che gli dava tanto fastidio. Tacque e prese il plico che l’altro gli porgeva. Era una lettera su carta intestata del supremo comando americano diretta a non precisata istituzione accademica. Vi era scritto a mano che Vincenzo Brancifora aveva fornito un aiuto prezioso alle operazioni militari americane in Sicilia; che il predetto giovane fisico, di saldissima fede antifascista, antinazista e anche anticomunista aveva una preparazione culturale e scientifica non comune, anzi assai rara, e un cervello brillante. Seguiva la firma del Generale.

Il giovane guardò commosso il Gran Capo. «Userai questa mia presentazione quando verrai negli USA dopo la laurea. Accertati che il mio nome conti ancora qualcosa, prima di usarla. La invierai alle Istituzioni accademiche presso le quali farai domanda». Patton si alzò, guardò il giovane severamente, gli toccò la mano e uscì.

I due non si videro più. Vincenzo pianse ancora una volta a goccioloni quando lesse che quell’uomo straordinario era morto a causa di un banale incidente automobilistico il 21 dicembre 1945 a Heidelberg. Nel 1950, dopo la laurea, poiché gli impieghi che gli proponeva il suo maestro nulla avevano a che fare con la fisica delle particelle, Brancifora fece domanda per una borsa di studio presso tre Università americane dotate di Dipartimenti di fisica prestigiosi. Allegò la lettera di Patton, ancorché gli paresse quasi inutile produrla. Il primo Dip che rispose fu quello in assoluto più prestigioso (vi lavoravano Enrico Fermi e altri due premi Nobel). Si dichiarava lieto di potergli dare la borsa di studio. Nel settembre 1950 il giovane scienziato appena giunto fu chiamato a colloquio dal Rettore e dal Direttore del Dipartimento. Dopo che si fu accomodato gli dissero: «Sa che nessuno ha mai avuto una presentazione importante come la Sua? Vede, il Generale Patton è oggi considerato figura eticamente controversa malgrado il suo incontestabile talento di uomo d’arme. Allora abbiamo mandato la lettera all’Ufficio di Stato maggiore delle forze armate chiedendo un parere. Ed eccolo». Il Rettore porse a Vincenzo una responsiva proveniente da quell’Ufficio. Vi era scritto che la lettera scritta dall’illustre militare e patriota George Smith Patton in favore del giovane Italiano era da considerare esattissima, del tutto fededegna. La responsiva recava la firma autografa di Dwight D. Eisenhauer.

I circa dieci anni trascorsi da Vincenzo negli USA furono di gran lunga i migliori, i più stimolanti e interessanti della sua vita. Dopo che fu borsista a Chicago, la signorina accettò di sposarlo, con il consenso pieno di tutta la propria famiglia.

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