L’estate della solitudine, dell’edera e della lussuria

L’estate della solitudine, dell’edera e della lussuria

Nella primavera dell’anno successivo alla morte della dispotica zia Clara (marzo 2001), la quale per lungo tempo aveva esercitato un potere assoluto sulla proprietà di Montedeifrassini, Eli cominciò a chiedersi che fine stava facendo quel fondo tanto amato e indiviso, del quale erano comproprietari sua madre e il cugino terziario francescano senza prole delle due donne. L’inverno era stato molto freddo e molto piovoso non solo nel Nord – Eli, sua figlia e la sua famiglia di origine vivevano a Mantova – ma anche in Sicilia. A fine maggio, approfittando della necessità di fare ricerche negli archivi e nelle biblioteche di Palermo e di Catania, Eli ottenne da sua madre il permesso di andare a dormire nella casona di famiglia. Trascorreva tre giorni feriali nelle biblioteche e negli archivi, ma in due giorni feriali e in più nei sabati e nelle domeniche la donna lavorava in casa o all’aperto nella proprietà.

Il fondo del nonno sembrava una di quelle proprietà abbandonate da anni e anni che le erbacce e la natura selvatica si vanno lentamente “mangiando”, contribuendo a dissestarne anche le strutture in pietra e in cemento: scalini, aiuole, selciato a quadrilatero che costeggiava l’abitazione, beole ecc. Per fortuna le erbacce non avevano ancora intaccato i muri dell’abitazione. Le scelte sbagliate da zia Clara imposte agli altri due eredi avevano reso invisibile il paesaggio che un tempo si godeva dalla spianata, dai balconi e dai terrazzi. Nino, il contadino che aveva avuto una influenza enorme sulla zia aveva convinto questa, che voleva una casa tutta circondata dal bosco, a piantare pini aleppo su tutti i terrazzamenti che digradavano verso la proprietà del contadino medesimo. I pini aleppo, alberi infestanti, si erano moltiplicati ed erano cresciuti molto rapidamente come tutto ciò che reca danno e basta. Pessima la legna loro per il camino, nessun frutto, a differenza dei preziosi pini pinoliferi, gli aleppo erano capaci solo di isterilire il terreno su cui sorgevano. Nino aveva convinto la zia a non ri-piantumare l’ultimo e più basso terrazzamento, e a lasciarvi gli alberi da frutto. Dunque la proprietà di Nino non correva alcun pericolo, mentre la casa comune che era stata dei nonni sarebbe certamente andata a fuoco se appena un incendio si fosse avvicinato dai fianchi.

La claustrofoba Eli aveva davanti a sé una orribile, assai fitta, selva oscura. La donna comprese che non sarebbe mai più potuta venire a Montedeifrassini, e pensava con nostalgia acutissima al panorama sulle serre, sul mare e sull’orizzonte di cui aveva goduto nell’infanzia. Dalle molte decine di giare, botti, vasi artisticamente lavorati in cui stavano ortensie e gerani uscivano rami secchi, lunghissimi, nodosi, in cui avrebbero potuto nidificare volentieri le arpie. Solo le cime di quei rami recavano foglioline verdi. Questo era il risultato delle cure amorevoli di Nino, che non faceva mai dei veri rinvasi, anche se diceva di averli fatti. Nel secondo pomeriggio delle giornate trascorse nella proprietà Eli prese a rinvasare, prodigando alle piantine tante cure. Parallelamente chiese al dottore Geraci, il vicino che abitava di fronte alla casona, al di là della stradicciola carrozzabile, se poteva darle il permesso di fare eseguire lavori dai due contadini di mezza età che si prendevano cura del fondo suo. Il vicino le condusse i contadini, che parevano una coppia della letteratura, l’uno, Rosario Impastato, tipo normanno, alto, con occhi azzurri e capelli biondo miele, magrissimo, riservato; l’altro, Santino De Maria, moro, bassotto, pingue, ciarliero, quasi una simpatica macchietta. Il primo giorno di lavoro questi esibì sorridendo a Eli una dentatura alla quale mancavano ormai diversi tasselli e le disse: «Ma lo vede che graziosi dentini di latte sto mettendo?».

Per alcuni giorni la donna non andò più in città. Propose ai due lavoratori di consumare il pasto in cucina con lei, invece di mangiare fuori all’aperto per conto loro; lei avrebbe preparato anche un primo caldo per tutti e tre. Per diversi giorni i pranzetti delle 12.30 e le conversazioni schiette e cordiali ‒ che toccarono anche aspetti della vita privata di ciascuno ‒ con quei due uomini genuini furono una delle più gradevoli esperienze vissute dalla donna negli ultimi anni. Lei preparava pasta con aglio olio e peperoncino, o pasta con le zucchine, o minestra con i tenerumi e offriva il vino, mentre i due uomini mettevano in comune l’acqua buona della sorgente del loro paese, il peperoncino, il formaggio e frittata con la ricotta o con le patate.

Al quarto giorno, giorno in cui si era autoinvitato a pranzo padre La Viola, il cappuccino che aveva tenuto a battesimo le figlie gemelle di zia Clara, Eli stappò una bottiglia di Chianti Gallo nero, parlandone ai contadini con orgoglio, certissima che avrebbero apprezzato quell’omaggio rinomato. ‒ Ma là dove producono questo vino c’è u fiume? ‒ chiese serissimo Santino. E lei di rimando: ‒ Sì, allora forse è passato da quella zona. Oltre che da tanti torrenti e fiumi minori le contrade del Chianti sono bagnate, o forse sfiorate, dall’Arno, uno dei tre più importanti fiumi italiani ‒. I due contadini risero di gusto, poi Impastato, comprendendo che Eli non aveva ravvisato il sarcasmo dell’amico, le spiegò, con quel suo fare composto e tranquillo: ‒ Santino vuole dire che questo vino del Nord è di quelli che non finiscono mai. Lei al supermercato per tutto l’anno e magari anche per l’anno successivo trova sempre bottiglie di questo vino e di questa annata; e le trova nei supermercati di tutte le regioni. Noi diciamo: come fanno a non esaurire mai la produzione? Evidentemente, si scherza, prendono l’acqua da un fiume, ci mettono dentro qualche cartina, ed ecco pronte decine di migliaia di bottiglie –. Eli trasecolò, mentre padre La Viola sogghignò: – Contadino: scarpe grosse e cervello fino –.

I due lavoratori erano molto gentili con quella donna ingenua, e lei capiva che la ritenevano molto sola ed emotivamente provata, giacché lei aveva detto di non aver marito e di aver provveduto da sola, quasi interamente, al mantenimento di sua figlia, la quale ora studiava all’università. Per non sembrare un caso pietoso Eli spiegò ai due che si sentiva molto triste anche a causa di quell’orribile ammucchiata di pini aleppo, di quella barriera nera e impenetrabile, che a lei, claustrofoba, oltre che la vista toglieva il respiro. Stupefatti dal candore di lei i contadini le dissero che abbattere 10 o 12 pini aleppo non costituiva problema alcuno per loro, e che le avrebbero restituito una buona parte del panorama da lei vagheggiato. E così fu. Dalla spianata scendeva pochi giorni dopo un arioso canalone, tale che la donna nomade poté rivedere l’affascinante fuga delle serre parzialmente boscose che si rincorrevano le une dietro alle altre fino a perdersi sul mare dal quale si alzava l’orizzonte meraviglioso. Il tempo lì si era fermato. Non si vedevano pali della luce né strade asfaltate, solo sentieri e casette contadine aggraziate. Tanto bastò a farla sentire perfettamente felice.

Nino, frattanto, conduceva contro di lei una guerra senza quartiere. Ottantacinquenne com’era non poteva più fare lavori di fatica, e quando vide i frutti del lavoro personale della donna, cioè il delizioso rinvaso, intimò a Eli in modo ruvido di andarsene, nel suo impasto di dialetto e lingua nazionale. Poi protestò vivamente quando capì che il taglio dell’erba era stato affidato a due contadini di un paesetto vicino invece che a suo figlio Peppe e a suo nipote, il figlio di Carmelina, sorella di Peppe, mastri entrambi. Eli lo lasciò cantare. Per fortuna alcuni amici si erano già insediati nelle case di villeggiatura e dunque si sentiva protetta. Disse al disonesto uomo di fiducia di sua zia (era certo che aveva rubato tra l’altro molta acqua e molta corrente elettrica) che Peppe e il nipote non erano disposti a venire a lavorare a giornata, ma volevano fare il taglio dell’erba nei ritagli di tempo, lungo un arco di 20 giorni o di un mese intero. Questo era ormai inaccettabile. Lei desiderava presenziare al lavoro, com’era diritto di chi paga.

Dopo che Impastato e De Maria ebbero terminato i lavori pattuiti Eli si dedicò con rinnovato piacere e vigore alle attività contadinesche, che ormai le portavano via per intero le mattinate e parte del pomeriggio nei giorni in cui non andava né in archivio né in biblioteca. L’occupazione di gran lunga più faticosa, un tipico lavoro da uomo muscoloso oltre che esperto, era quella di cercare di liberare i grandi alberi del bosco vecchio dall’edera che li soffocava. Tutto il fondo era ormai percorso sotterraneamente da grossi rami (o radici) di edera, che erano emersi ovunque avessero trovato un albero grande o piccolo cui abbarbicarsi e cui suggere parassitariamente la linfa vitale. Querce e castagni colossali erano soffocati da lunghissime spire coperte di peluria fitta e ripugnante, che raggiungevano un diametro di 8-9 cm, e dalle quali si diramavano un’infinità di liane secondarie, ricchissime di fogliame d’edera, a loro volta avviticchiate ai tronchi e ai rami che spolpavano. Eli ‒ mentre malediceva come di consueto l’incuria e la disonestà di Nino, oltre che l’incompetenza della zia ‒ lavorava come una forsennata di piccone per svellere quei semi-tronchi di edera dagli alberi, in basso, come le avevano insegnato Santino e Rosario. Quindi la donna prendeva a lavorare di zappetto fino a quando il semi-tronco di edera non veniva reciso a metà. L’edera abbarbicata al tronco sarebbe seccata e poi caduta. Allora la donna tirava su con tutte le sue forze il mozzicone che si infilava a terra. Se esso si ricongiungeva ad altre radici lavorava ancora di zappetto per recidere quanto più poteva le basi di quella maledetta pianta infestante. In ogni caso tirava sempre verso l’alto i mozziconi recisi a terra per estirparne in lunghezza una quantità tale da impedire che tornassero ad avvolgere presto l’albero tra le loro spire.

Un giorno eseguiva quel lavoro faticosissimo e pericoloso alla base di un albero che stava in pendenza. Quando tirò su da terra il ramo-radice principale d’edera e le sue ramificazioni più piccole e giovani il terreno smottò e la donna precipitò per un paio di metri in basso sulla pendenza insieme al piccone, il quale, essendo molto pesante, le uscì di tra le mani e cadde fermandosi più in basso di lei. Eli era semistordita e tutta dolorante. Aveva picchiato per terra la fronte e su un sasso una costola; soprattutto, però, le doleva acutamente e le pareva fuori posto la spalla sinistra, corrispondente al braccio con cui aveva cercato di parare l’urto del suo corpo contro il pendio. Provò a muovere le gambe, poi il collo, poi le braccia e le dita. Tutte queste membra risposero ai comandi, sebbene il dolore alla spalla fosse acutissimo. Non sarebbe rimasta paralizzata, dunque. Ma non era in grado di rialzarsi.

Cautamente, fece compiere un piccolo arco di cerchio al braccio destro; con quella sola mano sganciò lo smeraldo dal filo di seta che portava al collo, nascosto tra i lembi annodati del pareo, e con un certo sforzo riuscì ad infilare l’anello all’anulare sinistro. Si sentì subito meglio, e anche meno spaventata. Era come ubriaca, e non le importava che, se per caso le costole e la spalla si fossero fratturate malamente, non sarebbe riuscita a rimettersi insieme; non le importava neppure che, trovandosi in quel periodo tutta sola nella strana magione avita e conducendo una vita molto ritirata, le sarebbe forse accaduto di rimanere in quel posto e in quella posizione per giorni e giorni. Le sue narici assaporavano con piacere il profumo della terra, e le pareva che il bosco la ringraziasse per i rischi che correva pur di liberare gli alberi dalla lurida, orribile edera infestante. Fu allora che il bosco cominciò a parlare. Più esattamente, cominciò un colloquio tra lo smeraldo, che poneva domande, e gli alberi, che in modo corale sussurravano risposte.

Gli alberi narrarono di una estate caduta esattamente 53 anni prima, quando Eli stava ancora nella mente di Dio. Anche quell’estate una donna aveva abitato da sola a Montedeifrassini, dalla fine di giugno, e proprio nel fondo in cui risiedeva Eli, che allora aveva però tutt’altra fisionomia. C’era ancora la casa contadina acquistata e ingrandita dal nonno. Là dove ora si trovava l’ampio parcheggio sterrato c’era una florida vigna; sui quattro terrazzamenti ora isteriliti dai brutti pini Aleppo c’erano altra vigna e il frutteto (peri, meli, susini), contornati ai fianchi dal bosco di castagni, lecci, querce e frassini. La donna che aveva lasciato la città e si era ritirata lì sola soletta aveva trentatré anni e doveva sposarsi entro fine ottobre con un giovane chimico impiegato in un ufficio brevetti a Catania. Era una giovane bassa e grassottella, braccia e gambe magre e ventre molto pronunciato; ma aveva un bel viso, con due grandi occhi scuri dalle ciglia lunghissime, una bocca rosa finemente disegnata, e una bella pelle liscia e bianchissima, salvo le gote colorite.

Lei non era innamorata del suo fidanzato; il suo cuore era stato a lungo occupato, a partire dall’ultimo periodo della guerra e dell’inizio della guerra civile italiana, da un ufficiale dell’aviazione di nobilissima famiglia campana, un collega di suo fratello. L’ufficiale, dopo alti e bassi e molti ripensamenti, l’aveva definitivamente lasciata circa due anni prima: egli non voleva sposare una borghese, per giunta non ricca, voleva invece una donna dell’aristocrazia o almeno dell’altissima borghesia del denaro. Lei aveva covato con ardore per oltre un anno l’illusione di un ripensamento di lui. Poi si era rassegnata. Poiché era saggia capiva di avere raggiunto l’età limite oltre la quale una donna della sua generazione sarebbe rimasta per sempre zitella. Lei non voleva restare zitella, perché era una condizione molto umiliante e perché desiderava dei figli. Così aveva accettato la corte timida e commovente di quel giovane chimico tanto spaurito, succube di una madre autoritaria. La donna provava una intensa compassione per quel giovane, desiderava sinceramente di essergli di aiuto e di sostegno e questi sentimenti, si sa, erano allora sufficienti a indurre al matrimonio tante donne.

La romita meditava tra sé tutte queste cose, in quelle settimane di ritiro e di vacanza a Montedeifrassini; cercava così di ricacciare indietro la nostalgia della passione e dell’incanto che avevano contrassegnato il suo amore per l’aristocratico campano. Ogni giorno saliva a piedi al Santuario dedicato alla Madonna, che si ergeva appena sotto la vetta del pizzo più alto della contrada. Pregava la Madonna di aiutarla a essere una buona moglie, le chiedeva di donarle almeno tre figliuoli, la supplicava con profonda umiltà e sincerità di estirpare dal suo cuore quel desiderio di attrazione fisica e di amore appassionato che ancora vi stavano pericolosamente annidati.

Confinavano lato mare con il fondo del padre della donna due poderi, appartenenti a due famiglie contadine in cattivi rapporti tra loro. Uno dei due poderi era stato di recente ereditato da un giovane lavoratore della terra, il quale da solo vi coltivava orti e vigna e frutteto e oliveto. I suoi fratelli avevano avuto terreni e proprietà in zone non lontane ma neppure confinanti. Egli era fidanzato con una ragazza di Clisunto, figlia di pescatori, e doveva a sua volta sposarsi entro pochi mesi. Si chiamava Nino. Nino era un giovanotto bellissimo, alto e dritto come un fuso, un corpo asciutto e muscoloso, due grandi occhi nerissimi come more mature, e lineamenti molto regolari. Quando una donna gli piaceva, egli piantava i propri occhi in quelli di lei, in modo provocatorio, ardente, impudico. Nino aveva un contratto verbale con la nonna di Eli, vedova da tanti anni. La signora gli pagava quaranta giornate di lavoro all’anno ed egli le teneva sempre pulito il sottobosco, le tagliava a fine primavera l’erba alta, le potava gli alberi da frutta, le teneva a posto la vigna, vendemmiava e faceva il vino, rito, quest’ultimo, al quale tutti i figli della signora partecipavano con entusiasmo.

Nino era cresciuto con i figli della signora; aveva una servitù pedonale all’interno della proprietà del nonno di Eli, aveva un paio d’anni in meno della donna non più giovanissima che ora abitava da sola in quella proprietà. Appunto perché la donna era sola, Nino, cavallerescamente, saliva ogni mattina, durante la pausa tra un lavoro e un altro, e ogni sera, al termine della giornata di lavoro, per vedere se la figlia della sua principale datrice di lavoro avesse bisogno di qualcosa o avesse degli ordini da dargli. La donna lo accoglieva con gioia, e a se stessa diceva che quella gioia era dovuta all’antica consuetudine e al fatto di sentirsi protetta da quell’uomo vigoroso e tanto sicuro di sé. Lei percepiva benissimo quel suo sguardo penetrante e provocatorio, e spesso doveva distogliere i propri occhi dai suoi, e chinare la testa, sperando che egli non avvertisse il turbamento che sapeva suscitare in lei.

Una domenica pomeriggio, dopo essere discesa dal Santuario, la donna andò a raccogliere pigne ben colme nella pineta non recintata al confine tra le due proprietà, quella dei suoi genitori e quella di Nino. Avrebbe fatto all’indomani una ottima pignoccata. Al tramonto, mentre lei tornava verso casa sua percorrendo il sentiero ripido per il quale Nino saliva ogni giorno, inciampò, cadde, le pigne si rovesciarono fuori del sacco, e lei vide che la terra sassosa si tingeva del suo sangue. Ebbe una paura terribile e urlò con quanto fiato aveva in gola. Nino non era sceso con il suo mulo in paese, quel giorno, perché aveva ricevuto lì in campagna la visita della fidanzata e di tutti i parenti di lei e anche di sua madre, dei suoi fratelli e delle loro mogli. Sentì le urla e accorse subito, trafelato e spaventato. La prese tra le braccia con delicatezza e dopo averla trasportata per alcuni metri l’adagiò su una zolla di terra senza sassi, morbida per le foglie che egli stesso vi aveva ammucchiato. Lei era atterrita dalle ferite sanguinanti; ne aveva sulle gambe, sulle ginocchia, sulle braccia. Egli le guardò attentamente; aveva con sé una borraccia e un fazzoletto di bucato. Pulì e tamponò accuratamente quelle escoriazioni e le assicurò che erano poco più che graffi, quindi cominciò a leccargliele, per disinfettarle.

Lei provava un po’ di dolore, ma non fitte lancinanti. Le cure dell’uomo la confortarono e fecero rilassare i suoi muscoli contratti. Pian piano il sentire sulla propria pelle anche il tocco delle guance di Nino, un tocco gentile perché egli si sbarbava ogni domenica, cominciò a darle piacere. Poi egli smise di leccarla e cominciò a toccarla, per capire se si fosse rotta qualche osso. Lei sentiva montare un’ondata di calore dalle proprie viscere, dal basso ventre, da laggiù dove c’è l’umidità, e rabbrividì. Nino la rassicurava, parlandole con voce bassa e un poco roca ma dolce. Le diceva che si era tutta ammaccata ma che non si era rotta niente. Continuava a ispezionarla, la palpava, ormai la accarezzava con passione crescente e lei non reagiva, però tremava, non riusciva a trattenere sospiri e neppure a respingerlo. Egli incollò le labbra a quelle di lei, le ficcò in bocca la lingua, tastò da ogni parte, con una certa prepotenza, la lingua di lei. Frattanto le sue mani le sbottonarono la camicetta, le strapparono la gonna e la sottoveste leggere, le sollevarono il reggiseno sopra le mammelle. Il giovane palpò le mammelle di lei, leccò i suoi capezzoli, glieli accarezzò, glieli baciò e i due bei seni divennero turgidi. Lei fremeva e quasi gemeva, mentre faceva timidi tentativi per allontanarlo da sé. Poi si arrese, e, via via che le carezze di lui si infittivano, cominciò a ricambiarle. Si sfilò il bustino e si tolse il reggiseno, poi gli passò le braccia intorno al collo, gli massaggiò la schiena e lo aiutò a togliersi la camicia; quindi si aggrappò a lui e gli chiese altri baci. Egli l’accontentò, quasi con furore, mentre lacerava quel poco che lei ancora indossava. Muoveva le labbra senza che si staccassero dalle carni di lei, dalla bocca, ai seni, al ventre, all’ampio pube ricoperto di morbido pelo. Con un dito le massaggiò il clitoride; poi lo infilò a metà nella vagina, accarezzandola da ogni parte. Durante il coito egli, mentre muoveva ritmicamente il fondo schiena e i glutei, tenne con le proprie braccia arcuate e divaricate le gambe di lei. Dopo lo sfinimento amoroso, mentre l’ansimare si chetava e le gocce di sudore che imperlavano la bella fronte di lei svaporavano, i due rimasero silenziosamente abbracciati per qualche minuto.

Poi lei cominciò ad accarezzargli teneramente la nuca e a baciargli dolcemente gli occhi e le guance. Egli era un poco teso, irrigidito, infine le parlò: ‒ Dunque io non sono il primo! ‒

Lei fu davvero sorpresa, quasi sbigottita: Come puoi dire questo? Come fai a saperlo? ‒

‒ Lo so, perché se tu fossi stata vergine io avrei dovuto sentire che ti laceravo quella cosa che le vergini hanno dentro il budello e che è la prova della loro verginità, e tu avresti perso del sangue, come quando ci sono le regole ‒.

Lei esitò: ‒ Neppure io sono la prima per te. Ne hai con sicurezza conosciute tante prima di me, l’ho capito per il modo come ti sei comportato durante questo incontro. ‒

‒ È diverso, io sono un uomo e gli uomini devono conoscere delle donne prima della moglie. Il padre stesso trova una donna per il figlio ragazzo, per verificare che questo sia capace di avere l’erezione e di penetrare la femmina. Le donne, invece, devono restare vergini finché non si sposano. ‒

‒ Hai ragione ‒ disse lei un po’ umiliata ‒ ma io sono stata come fidanzata a un uomo per il quale provavo un amore immenso, un amore vero, e volevo una vita insieme a lui come il massimo bene per la mia anima e per la sua, e volevo sposarlo. Lui diceva che mi voleva bene anche lui ma che dovevo dargli la prova d’amore per renderlo sicuro che davvero io ero disposta a tutto per lui. E io gliel’ho data, anche se avrei preferito restare pura, perché solo dimostrandogli che ero disposta a sacrificare tutto per lui potevo sperare che ci saremmo sposati. Poi lui si è rimangiato le sue promesse e mi ha abbandonata.  ‒

Nino fu intenerito da quel racconto, che era stato fatto con accento profondamente sincero e che ancora grondava dolore. Allora le chiese, parlandole carezzevolmente all’orecchio: ‒ Perciò ti sposi senza amore, solo perché hai paura di restare zitella? ‒

‒ Mi sposo perché il mio fidanzato è tanto buono, tanto mite, tanto debole e io sono forte e posso dargli aiuto e sostegno. Sia lui che io amiamo i bambini e vogliamo subito dei figli. ‒

‒ Guarda ‒ le disse Nino con una lieve nota ansiosa nella bella voce profonda ‒ che io, mentre facevamo all’amore, non ho preso nessuna precauzione, e tutto quello che è uscito da me è entrato dentro di te. Se resti incinta per te è un guaio grosso e io posso aiutarti solo portandoti da una che fa gli aborti con i ferri da calza e i decotti di prezzemolo. ‒

Per un istante a lei venne in mente un dialogo tra i due amanti in Lady’s Chatterley lover, ma si guardò bene dall’accennare a Nino quel romanzo.

‒ Non ti preoccupare, non resterò incinta. ‒

‒ Come fai a esserne così sicura? ‒

‒ Perché dopo la fine della relazione con l’uomo di cui ti ho parlato sono andata da un medico esperto del corpo femminile, gli ho raccontato tutto e mi sono fatta visitare per esser certa che tutto fosse a posto; volevo anche sapere se si poteva rifare l’imene, che è quella cosa delle vergini, e lui mi ha detto di no. Però ha trovato che nel mio organismo femminile qualcosa non va bene; ci sono come due palle, due cisti, che ostruiscono le tube, cioè gli organi che producono l’elemento femminile. Sai, questo elemento femminile si chiama ovulo e si dovrebbe formare nei giorni successivi alla fine delle regole; esso cade nell’utero e sta in vita qualche giorno; se il seme maschile lo raggiunge mentre è ben vivo si fondono e comincia la gravidanza. Le ostruzioni nel mio corpo impediscono all’ovulo di scendere nell’utero. ‒‒

‒ Ma allora tu non puoi avere bambini, sei sterile. ‒

‒ No; il mio fidanzato sa che c’è questo problema, ma lo si può risolvere. Però devo entrare in ospedale e farmi operare. Mi addormenteranno con dei sonniferi, poi taglieranno la mia carne qua, vedi ‒ e gli indicò due zone al di sopra del pube ‒ con i loro strumenti, che sono molto precisi, i medici rimuoveranno le due palle, le due cisti, che ostruiscono le tube e impediscono che nel mio utero cada l’elemento femminile. ‒

Nino la accarezzò quasi commosso: ‒ Sei proprio una donna coraggiosa. Vuoi rischiare la vita per avere dei figli e per dare figli a tuo marito. Io sono un contadino, tu sei una signora della città, con la laurea e il lavoro in ufficio. Però, se ti va, quest’estate, finché tu rimani qui, io verrò a trovarti ogni giorno allo stesso modo di stasera. ‒ Lei non disse nulla ed egli non insistette. Si rivestirono senza guardarsi e si salutarono senza toccarsi, poi ognuno fece ritorno alla propria casa.

La donna restò a Montedeifrassini e il giovane contadino venne tutti i giorni, e spesso anche due volte al giorno, stando bene attento a non farsi né vedere né sentire da nessuno se non dall’amante. Verso l’imbrunire, mentre lo aspettava, la donna accendeva sempre due candele nella stanza da pranzo grande, che era anche un soggiorno, e lasciava aperte le persiane, talché il chiarore di quelle fiammelle fosse percepibile da occhi buoni. Egli allora capiva che non c’era pericolo, che lei era sola in casa, ed entrava dalla finestra della camera da letto al pianterreno, alla quale si arrivava aggirando la spianata e passando attraverso la vigna; sapeva che la donna gli lasciava le imposte socchiuse. Poi egli la raggiungeva, guidato dal canto di lei, perché lei quando era sola cantava sempre, e la prendeva d’assalto. Qualche volta sembrava che egli venisse a reclamare un suo diritto e basta, da padrone. Pensava solo a se stesso e faceva le cose alla svelta. In genere era già eccitato e perciò gli occorreva poco tempo e contatti veloci per essere pronto alla penetrazione. Aveva superato la reticenza maschile, tipica dei contadini, a lasciarle vedere quel suo grande membro virile. Certe volte glielo metteva tra le manine delicate, che lo stringevano bene alzandosi e abbassandosi finché sentivano il gonfiarsi quasi repentino del canale, immediatamente prima che egli si piegasse quasi a cadere su di lei, inginocchiata davanti a lui, mentre lo sperma le irrorava il petto. Non di rado pretendeva che lei gli leccasse i genitali e poi aprisse al membro la propria bocca, lavorandolo sia di mani che di lingua. ‒ Togliti, togliti ‒ gridava subito prima della eiaculazione, perché non voleva assolutamente che lei inghiottisse lo sperma. Era bello, per lei, quando la faceva girare di schiena e la faceva piegare a 90° in avanti, mentre lei si appoggiava al tavolo; oppure la faceva accucciare sul bordo di un letto e lei si metteva con le gambe completamente piegate ad angolo acuto, mentre le braccia, piegate esse pure, poggiavano sul materasso davanti alle ginocchia e i glutei si offrivano alti e invitanti all’uomo dietro di lei. Egli si toglieva la cintura dei pantaloni ed esplorava con la parte terminale del membro tutta la zona tra l’ano e le grandi labbra di lei e, arcuata la propria schiena, le braccia strettamente abbarbicate intorno al busto della donna, le apriva un poco l’ano e vi infilava, con movimenti cauti ma accentuati delle natiche e del bacino, due o tre centimetri di quel suo pezzo di carne rigido come un bastone; poi lo ficcava nella vagina, su e giù in basso ai morbidi glutei divaricati di lei. Dopo essere venuto, mentre un poco di sperma usciva dalla vagina e gocciolava per terra, si appoggiava con il petto e le braccia per qualche istante sulla schiena di lei; quindi si rialzava deciso, come chi, dopo aver consumato rapidamente un pasto necessario, non può ‒ o non vuole ‒ perdere altro tempo. Si rimetteva la cintura e se ne andava senza neanche salutarla.

Prima di imboccare il sentiero verso casa propria, però, si fermava sempre, ogni giorno, sia di mattina che di sera, al pozzo collocato nel terrazzamento centrale, e tirava su con mani esperte e tutte le opportune precauzioni igieniche almeno cinque secchi d’acqua, in modo che lei, nell’arco delle 24 ore, potesse bere, lavarsi, lavare le stoviglie e la propria biancheria e anche innaffiare il basilico, la menta, la salvia, e le numerose piantine fiorite nei vasi. Altre volte, invece, egli non badava al tempo, desiderava tutto il piacere che un atto amoroso può dare e perciò desiderava anche il piacere di lei. Allora, spontaneamente, aveva verso di lei atteggiamenti teneri, oltre che appassionati, faceva le cose in modo lento, voleva compiere insieme a lei tanti giochi d’amore e si fermava a colloquio con la donna pure dopo che tutti i riti amorosi erano conclusi, come se fossero stati due veri amanti, due innamorati. Quando accadeva questo lei era immensamente felice, si sentiva quasi ripagata della delusione che la vita le aveva inflitto con le sembianze dell’aristocratico campano.

Durante il giorno diverse faccende concrete tenevano occupata la donna; in particolare le pulizie domestiche e l’intenso lavoro per cucire e ricamare il corredo. Nel corso della mattinata passavano frequentemente, lungo la trazzera grande antistante casa, rivenduglioli a cavallo di muli e di asini. Il primo che arrivava, mentre lei ancora dormiva, era il vaccaro. Intorno alle sei del mattino veniva a riempire le bottiglie che i clienti abituali, come lei e la sua famiglia, gli lasciavano fuori di casa, su un tavolo attiguo alla porta della cucina; poi, al sabato pomeriggio, veniva a prendersi i soldi della settimana. Un recipiente in lamiera stagnata sottile, simile a un secchio, forato in alto ai punti opposti della circonferenza e tenuto da corde appunto come i secchi, stava normalmente immerso per tre quarti nell’acqua del pozzo più profondo, dietro la vigna, a 5 o 6 metri di profondità. Venivano riposti in quel contenitore le bottiglie di latte fresco, le uova, la carne, il burro per fare i dolci, gli avanzi di roba cotta e ogni genere deteriorabile. Il primo impegno della giornata di lei, dopo che si era lavata, vestita e che aveva fatto colazione, era quello di andare a tirar su dal pozzo il recipiente per conservarvi il residuo latte fresco di mungitura. Tutti gli altri ambulanti passavano tra le otto e le undici. Lei non acquistava mai frutta, perché la coglieva dal frutteto di suo padre insieme a Nino, e già le mele, le pere, le susine e i fichi erano maturi, dato che la primavera era stata calda. Lei non acquistava neppure ortaggi, perché l’orto che Nino le stava curando dava zucchine, melanzane, cipolle e pomodori magnifici; non comprava neanche uova, né olive, né limoni, né vino, né olio, perché Nino gliene regalava in abbondanza. Comperava però caffè, zucchero, pasta, farina e soprattutto pane fresco, tuma, ricotta, provolone piccante, capperi e acciughe salate, oltre a un poco di carne conservata nei panieri tra il ghiaccio, sotto strati di paglia. Poi cominciava a preparare ogni sorta di manicaretti, dolci e salati, che per metà avrebbe offerto a Nino in cambio dei doni di lui.

Del resto, fin dal momento in cui si levava, tutta la sua coscienza vigile era concentrata sulla prossima e desiderata venuta di lui. E che gioia se egli compariva anche al mattino: allora la casa si impregnava per l’intera giornata dell’odore del sesso e dei bisbigli degli amanti; o almeno, così pareva a lei. E quando egli veniva al mattino, se anche il tempo dei preliminari e del congiungimento era scarso, troppo scarso, lei trascorreva nondimeno gioiosamente il resto della giornata, fino al momento di rientrare tra le sue braccia e di accoglierlo nel proprio corpo, perché pensava tutta orgogliosa e lusingata che egli l’aveva desiderata fin dal momento del risveglio e che non era stato capace di rinunziare all’appagamento del proprio desiderio di lei.

Nino era estremamente cauto quando veniva, mattina o sera che fosse. Non faceva alcun rumore mentre percorreva il sentiero che conduceva da casa sua a quella dei nonni di Eli. La donna, mentre lo aspettava, teneva le orecchie tese e si domandava come fosse possibile che un uomo tanto prestante e gagliardo potesse muoversi in quel modo felpato, senza che si udisse mai il mormorio tenue di una foglia calpestata o il crepitare secco e breve di un rametto spezzato. Quando giungeva al bordo della spianata, ancora nascosto dagli alberi del bosco lato Imperatore, egli si arrestava per qualche minuto. Tra la donna e lui v’era l’intesa che – se qualcuno si fosse trattenuto in casa di lei al mattino –, egli, dopo avere avuto la certezza che vi era una voce estranea in casa o alla porta principale, avrebbe chiamato rispettosamente la donna; quindi le avrebbe ricordato in presenza dell’intruso, coppola tra le mani, che il giorno innanzi si erano accordati affinché egli cominciasse quei lavori urgenti di potatura nel frutteto e di sistemazione dell’orto, ai quali la madre di lei aveva ordinato che la figlia fosse sempre presente. Lo stratagemma funzionò alla perfezione, e, le rare volte che al mattino il giovane trovò la sua donna in compagnia di una persona indesiderata, gli riuscì sempre di fare battere in ritirata la persona in questione; la quale, mentre se ne andava senza avere sentore alcuno delle cose che veramente dovevano accadere, faceva mille scuse agli amanti per il disturbo che aveva arrecato.

Lei aveva smesso di recarsi al santuario, perché non poteva mostrare pubblicamente che non faceva più la comunione; se ne sarebbero accorti tutti gli abitanti della contrada: vero è che avrebbero supposto sue esperienze prematrimoniali con il fidanzato legittimo… Pertanto la donna aveva fatto sapere ai monaci che la rovinosa caduta di quella tal domenica sera le aveva incrinato due o tre costole; ragion per cui ogni minimo movimento che portasse il corpo fuori asse le cagionava dolori assai acuti. Allora il padre priore scese a trovarla in compagnia di due confratelli, affabili tutti e tre, in un pomeriggio di giorno feriale; si misero a sua disposizione per ogni cosa che i monaci potessero ed egli e altri frati venivano a farle visita almeno una volta ogni tre giorni. Il padre priore si era offerto anche di portarle la comunione la domenica in tarda mattinata; lei però aveva declinato, certo con tanti ringraziamenti, dicendo al premuroso cappuccino che un suo parente, giovane sacerdote, si trovava in quel tempo vicino a Clisunto perché gli erano stati prescritti, per ragioni di salute, bagni di mare e aria salsoiodica; lei riceveva la comunione dal cugino, che saliva a vederla tutte le domeniche di buon mattino. Era una bugia davvero pericolosa; se si fosse scoperto che non c’era alcun cugino nelle vicinanze lei si sarebbe dovuta arrampicare sugli specchi per giustificarsi, ma tant’è.

Poiché normalmente la villeggiatura cominciava a fine luglio, quando tutta la frutta o quasi era matura, e si protraeva fino a ottobre inoltrato, cioè fino alla conclusione della vendemmia, si erano trasferiti dalla città a Montedeifrassini un numero ancora sparuto di vicini e di amici: per fortuna, pensava lei. C’erano, in particolare, alcune famiglie che avevano le maggiori estensioni di terreno, o coltivato o messo a frutteto; erano gli eredi e discendenti imborghesiti dei feudatari, i quali naturalmente desideravano sorvegliare il lavoro già relativamente assiduo che i contadini pagati a giornata svolgevano per loro. Si trattava in parte di coppie mature, le quali avevano lasciato in città i figli che studiavano all’università o che avevano impieghi borghesi; in parte si trattava invece di figli giovani ma adulti, maturi e spesso sposati, che per conto dei genitori si dedicavano al mantenimento delle rendite agrarie della famiglia e non desideravano altri impegni né impieghi.

Così al pomeriggio, tra le 18 e le 20, la donna riceveva spesso visite di questi amici di vecchia data, fossero della generazione dei suoi genitori o della sua. Gli uomini senza moglie non venivano mai da soli, ma sempre in compagnia di coppie sposate. I monaci venivano sempre in tre. Lei aveva cura di far trovare già pronti sui tavolini lo sciroppo, il marsala, il thé freddo, i pezzetti di pignoccata e i biscotti. Fin dall’arrivo del primo ospite poteva così sedersi, affettando dolori al costato, e non si alzava mai via via che arrivavano gli altri, i quali venivano a stringerle le mani o a baciarla sulle guance. Nell’arco di un’ora si formava un crocchio di quindici o venti persone sedute in circolo sulla spianata. Alcune donne lavoravano a maglia o all’uncinetto oppure ricamavano; gli uomini fumavano sigarette. La conversazione era sempre animata, ancorché non fosse possibile non parlare anche di cose tristi, dei tanti amici comuni o dei parenti che erano morti in guerra, delle grandi difficoltà presentemente incontrate dalle mogli vedove, che spesso accudivano la prole aiutate da qualche sorella o cognata zitella convivente, e che non potevano fare a meno di lavorare: e meno male che le donne provenienti dalla borghesia più evoluta erano diplomate e potevano fare le maestre, le insegnanti nelle scuole d’arte, le direttrici di negozi di abbigliamento o di biancheria per la casa, le segretarie o le impiegate negli uffici.

La vita, però, era molto dura per chi non aveva spregiudicato spirito di lucro né talento imprenditoriale. Gli impieghi scarseggiavano, e poter contare sulle rendite agrarie diventava sempre più difficile, perché le riforme si stavano abbattendo come colpi di scure sui vecchi latifondisti eredi dei feudi. I contadini diventavano proprietari di terre che coltivavano a prezzo di sudore e di stenti, ma senza ottenere prodotti da vendere a prezzi competitivi: a differenza che al Nord, ove esistevano estensioni molto grandi di terra fertile pianeggiante, la quale veniva colà lavorata con macchinari industriali, gli agricoltori siciliani disponevano per lo più di terra sassosa, terrazzata o in declivio, su cui le macchine non avevano gioco. Quando i braccianti avessero ottenuto salari ancora più elevati, i superstiti proprietari di latifondi sarebbero stati costretti a consegnare la terra all’abbandono e all’incuria o a farsi coltivatori, con la zappa e il piccone, e alla guida del trattore. Quanto ai contadini, sopravvivevano soltanto in grazia della vendita ai consumatori diretti, ma il numero di persone che abbandonava le campagne cresceva a ritmo esponenziale. Se almeno fosse stata accordata dal governo, mediante lo statuto speciale, la benedetta e desiderata autonomia regionale, allora sì che le cose potevano cambiare: sarebbero stati creati moltissimi posti di lavoro nella burocrazia, e posti molto ben remunerati, anche. Destava preoccupazione, però, l’ascesa di quel ceto di piccolo-borghesi, ragionieri e perfino avvocati, i quali per due generazioni avevano occupato posti assai modesti, ma stavano ora spingendo, in collusione con i nuovi detentori delle leve del potere politico, al fine di accaparrarsi gli attesi e allettanti impieghi nella costituenda Regione a statuto speciale.

Si chiacchierava tuttavia volentieri anche di cose frivole e pettegole: della rinascente mondanità catanese, trapanese, siracusana e palermitana, che aveva come fulcro animatore il ceto politico e la vecchia nobiltà. I borghesi che erano tali da molte generazioni vedevano accorciarsi l’antica distanza che li aveva separati fino a trent’anni prima dalla nobiltà. Così si raccontava del concerto a casa dei principi Tizio, al quale erano stati invitati parecchi villeggianti di Montedeifrassini appartenenti alla più scelta borghesia; o del ricevimento di nozze in casa del duca Caio, il primogenito del quale aveva sposato una ereditiera, una borghese figlia di un banchiere arricchitosi a dismisura subito dopo la guerra: e anche in questa circostanza borghesia e nobiltà si erano mescolate. Poi il discorso cadeva ‒ purché non ci fossero i frati cappuccini ‒ sulle sedute spiritiche che si tenevano ogni anno a Montedeifrassini in casa dei laicissimi Laganà, dal sangue per metà nobile e per metà plebeo, e gli uomini non devoti del gruppo pregustavano l’arrivo di quegli amici a fine luglio e la ripresa di quel trasgressivo e inquietante passatempo.

La giovane padrona di casa parlava volentieri dei propri familiari, appartenenti all’alta borghesia delle professioni e della cultura, degli zii, dei fratelli, dei cugini, anche della madre: tutte persone molto conosciute e benvolute; e parlava della propria vicinissima presa di servizio nell’ufficio di Siracusa e del proprio imminente matrimonio con quel giovane chimico, il quale, lei diceva, durante la guerra si era comportato da eroe. Nessuno degli astanti lo conosceva, perché egli ‒ come pensavano in silenzio e poi si dicevano sottovoce tra loro dopo aver lasciato la casa della loro ospite ‒ proveniva da una famiglia di piccoli commercianti di paese estranea alla cerchia della borghesia antica e imparentata anzi con famiglie del popolaccio palermitano. A chi le chiedeva come avrebbe fatto a conciliare i doveri verso la famiglia con un lavoro impegnativo come quello che l’attendeva la donna rispondeva in modo tranquillo: lei e il suo fidanzato, diceva, avevano già deciso che, quando dal loro matrimonio fosse nato il primo figlio, avrebbero assunto una donna a pieno servizio che vivesse in casa loro; e poi si sarebbe visto come andare avanti. La donna non nascondeva di sperare che anche sua madre l’avrebbe aiutata un poco, giacché lei era la prima che si sposava dei sei figli.

Ogni due settimane veniva a trovarla il fidanzato, alla domenica; doveva levarsi molto presto al mattino, arrivava a Clisunto in treno e poi con la corriera saliva a Montedeifrassini. Per tornare indietro a Siracusa con i mezzi pubblici doveva purtroppo andar via intorno alle 17., prima che cominciassero ad arrivare gli amici di famiglia, i quali non ebbero mai la possibilità di incontrarlo; lei poi raccontava loro compiaciuta di aver trascorso alcune ore con il promesso sposo e con uno dei fratelli, il quale – tutti lo capivano – era il tutore, designato evidentemente dalla famiglia, dell’onore di lei.

La consuetudine prescriveva che le visite pomeridiane cominciassero e finissero una buona mezz’ora dopo quelle che riceveva l’amante di Nino. Lei, però, aveva imposto agli amici questi orari difformi adducendo a pretesto la spossatezza causatale dalle costole incrinate, spossatezza che alle 20. esibiva con signorilità ma pure con evidenza tale da indurre a congedarsi anche il più ciarliero degli amici e il più refrattario ad abbandonare la conversazione. Le signore portavano sempre alla giovane dolciumi e cibi cotti, anelletti con le melanzane o gatós freddi, per evitarle di cucinare, cioè di torcere il busto ai fornelli. Tutti, uomini e donne, le raccomandavano di gridare e farsi sentire, se aveva bisogno di aiuto per qualcosa: nel silenzio della campagna la voce si poteva udire fino a 100 metri in linea d’aria e anche più. Tutti, invariabilmente, si dichiaravano rassicurati e sollevati dal fatto di sapere che poche decine di metri sotto di lei abitava quel giovane contadino vigoroso e intelligente, il quale era la persona di fiducia della madre della donna; perché egli era in grado di sentirla con facilità e di portarle tempestivamente aiuto se ve ne fosse stato bisogno. Fin dalle 19. la donna non vedeva l’ora che gli amici se ne andassero. Dopo che, finalmente, anche gli ultimi amici avevano lasciato casa sua lei correva a rinfrescarsi e a profumarsi un pochino; e i brividi che già avvertiva lungo il corpo mentre era costretta a recitare la parte della promessa sposa quieta e saggia si infittivano e diventavano più intensi. Ora poteva pensare soltanto al suo amore, all’oggetto della sua passione, e aspettava Nino con desiderio acuto.

A quasi venti giorni dall’inizio di quella intensissima relazione, giorni che parevano anni, lei pensava ora con gelosia alla fidanzata di Nino. Era una follia, lo sapeva bene, ma sarebbe stata felice di sentirsi annunziare dal giovane che egli aveva troncato il fidanzamento perché aveva capito di non provare amore per la fidanzata. Subito dopo che questi pensieri si erano affacciati alla sua mente si metteva la mano sulla coscienza: neppure lei veniva sfiorata dall’idea di rinunziare al matrimonio con il fidanzato chimico. Ma cosa mai le stava succedendo? Non si sentiva in colpa; si sentiva, semmai, frastornata. Tutto un rigido sistema di certezze era crollato. No, il fatto di tradire il fidanzato non le creava problemi, perché non aveva ancora pronunziato il giuramento di fedeltà nuziale. Qualora per ipotesi questi, il fidanzato, in quel momento stesse facendo a sua volta delle esperienze con altre donne, lei certo sarebbe stata gelosa e anche indignata: forse non avrebbe più voluto sposarlo. Ma bastava che egli facesse le cose con discrezione; bastava che avesse cura di evitare le mormorazioni; bastava che nessun sentore di infedeltà giungesse a lei, e lei poteva stare tranquilla: occhio non vede, cuore non duole. Così appunto lei si stava comportando verso il fidanzato, con somma discrezione; dunque non v’era ragione di temere che egli potesse soffrire.

I suoi direttori spirituali, quando era ragazzina, le avevano giustificato la necessità di astenersi dai rapporti prematrimoniali mediante l’argomento che esistevano i diritti dei terzi, cioè di un coniuge potenziale successivo diverso dalla persona con cui si desiderava fornicare e addirittura i diritti dei figli che potevano nascere dal matrimonio con un coniuge diverso dalla persona con cui si era primamente fornicato. Le era stato inculcato, come a tutte le donne della generazione sua e di quelle precedenti che l’amore sensuale fuori dal matrimonio era peccato mortale. Per la verità questo era vero soprattutto per le donne. A grandissima maggioranza i preti erano molto comprensivi e tolleranti nei confronti degli uomini che avevano rapporti intimi con donne nel bordello o nei letti dei loro amici; erano tolleranti perfino con quelli che seducevano ragazze vergini giovanissime e poi le abbandonavano, incinte magari. La responsabilità delle conseguenze di atti sessuali compiuti al di fuori del matrimonio ricadeva sempre sulle donne, perfino su quelle violentate. Le donne dovevano evitare in ogni modo di fare incorrere il maschio in tentazione e dovevano mantenersi pure a costo della vita, come aveva fatto la piccola Maria Goretti.

Fino agli anni dell’università e all’inizio della guerra lei aveva creduto che avrebbe seguito fedelmente il modello di vita che gli educatori avevano impresso nel suo animo. La guerra, però, aveva imposto alle ragazze di condurre una vita non protetta. Andavano a sgomberare le case con i fratelli maschi sotto le bombe degli alleati. Vivevano in promiscuità con tantissimi cugini di primo e di secondo grado, ammassati tutti nella casa di campagna divenuta rifugio per un intero clan. Viaggiavano da sole o con una sola compagna, come aveva fatto lei con sua sorella quando si erano recate a Roma per accudire il fratello maggiore e tre suoi commilitoni, militari di carriera che avevano scelto di non unirsi a Mussolini e che dunque vivevano nascosti, per sottrarsi ai rastrellamenti dei fascisti e dei nazisti. Uno di quei commilitoni era l’aristocratico che aveva amato. Mesi trascorsi nello stesso appartamento e la ricerca difficile di un posticino e di momenti in cui appartarsi soli soletti.

Così, quando era cominciata la vita vera, aveva capito che le dottrine astruse e stiracchiate impartite dai suoi direttori spirituali non avevano nessuna relazione con la vita. Darsi carnalmente, nel fuoco della passione e dell’amore, era un atto di generosità, rifletteva il bisogno di unione e di piena intimità con la persona amata; era anche un rischio, e dunque una prova d’amore autentica e disinteressata, all’opposto dei calcoli economici di chi cercava il matrimonio-sistemazione. Quando si era data al suo nobiluomo era stata felice e aveva pensato tutte queste cose in modo pienamente convinto e non si era pentita neppure dopo che l’amato l’aveva lasciata. Ma ora che stava facendo? Aveva organizzato in modo convinto un fidanzamento che l’avrebbe condotta a un matrimonio senza amore; non propriamente un matrimonio-sistemazione perché lei avrebbe lavorato e guadagnato tanto quanto il marito. Era certa di voler essere fedele al suo sposo e di averlo accolto perché era buono e meritevole di affetto. L’esperienza con il nobiluomo l’aveva fatta maturare, le aveva aperto gli occhi. Aveva compreso che i matrimoni-sistemazione erano matrimoni onesti e casti, nei quali, se entrambi si comportavano con sufficiente rettitudine e benevolo rispetto reciproco, si poteva instaurare tra i coniugi, in assenza della passione, vera amicizia e vera solidarietà: una solidarietà che, in tanti matrimoni “combinati”, nella generazione antecedente la sua, lei aveva visto trasformarsi lentamente, e in modo all’inizio insospettabile, in osmosi autentica, fusione tra i due coniugi, talché l’uno non poteva vivere senza l’altro, e se l’uno moriva, l’altro moriva poco dopo. Perché questa relazione appassionatamente sensuale con Nino? Sarebbe stato sciocco e disonesto dire che era innamorata di lui. Il dislivello culturale e sociale era talmente ampio che non era possibile a nessuno dei due, ormai pienamente adulti, innamorarsi dell’altro. Tra loro parlavano solo delle piccole faccende materiali sbrigate nella giornata e del loro desiderio fisico, degli atti connessi all’amplesso.

Lei era come una cagna in calore e Nino come il maschio irresistibilmente attratto? Erano come il cavallo da monta e la femmina di cui esso sente l’odore? Sì, questo c’era, e tanto. I suoi sensi bruciavano per l’intera giornata e spesso non si sentivano appagati, sazi, neppure dopo due accoppiamenti e due estasi. Ma non c’era solo questo. Lei voleva bene a Nino in un particolare modo e ormai anche lui in un particolare modo ne voleva a lei. Entrambi, poi, assaporavano il piacere della libertà, dell’appagamento di un istinto naturale che in sé non era né buono né cattivo. Era l’eros e basta, del quale tutti gli esseri senzienti erano partecipi. Da che mondo è mondo, poi, l’eros nel mondo umano non è finalizzato alla mera procreazione. La Bibbia lasciava intendere di tante donne sterili le quali si congiungevano ai mariti anche in età avanzata e malgrado la consapevolezza di non poter procreare.

Quando i suoi pensieri arrivavano a questo punto si lasciava sfuggire un sospiro, che era al contempo di vergogna e di gioia: di vergogna perché non avrebbe potuto condurre la vita libera che stava conducendo con Nino se appena avesse avuto timore di restare incinta; o forse l’avrebbe condotta, quella vita tanto gioiosa, ma se fosse rimasta incinta la sua comunità allargata di appartenenza l’avrebbe espulsa per sempre insieme alla creatura. Per evitare di essere espulsa si sarebbe dovuta fare aiutare da chissà quale santo. In ogni caso le sarebbe toccato di mandare all’aria il matrimonio e poi di sparire per quattro o cinque mesi e poi di abbandonare il bambino, magari nella ruota. Abbandonare un bambino, il figlio suo e di Nino, il figlio di una grande, meravigliosa passione! Ma come sarebbe stato possibile fare questo? No, si sarebbe sposata con il suo fidanzato e avrebbe dato alla luce un bambino agli occhi del mondo prematuro. Peraltro lei era già pronta a mentire al fidanzato su un’altra questione, quella della verginità. Se nella prima notte di nozze il fidanzato fosse rimasto stupito e si fosse sentito ingannato perché dalla sua vagina non era uscito nemmeno un gocciolino di sangue lei gli avrebbe spiegato che non tutte le donne hanno l’imene, come sostenevano medici specialisti molto attendibili, e che lei era evidentemente una di quelle.

Allora subentrava l’altro momento, quello dei pensieri lieti. Lei non poteva avere figli per ora, tanto che già una volta aveva avuto le mestruazioni da quando si univa a Nino quotidianamente e senza precauzioni; e per quanti giochi d’amore audaci facessero, non v’era stato giorno in cui lo sperma di lui non avesse irrorato almeno una volta la vagina e l’utero di lei. Lei era felice e poteva permettersi di esserlo. Lei era una privilegiata alla quale la vita e la Provvidenza stavano donando piaceri che quasi nessuna donna, sposata o non sposata, era in grado di godere. Quando tutti questi pensieri, in certi giorni, l’assediavano di più, le creavano stati d’ansia e di tensione, sia pure frammisti a quelli di attesa gaia.  

Verso il crepuscolo aspettava l’amante tutta in tremito, e quasi con le narici e i sensi dilatati, e forse con la preoccupazione che egli non venisse. Quando arrivava gli buttava le braccia al collo e gli diceva la verità, cioè che aveva avuto paura che egli si fosse stancato di lei, che si sentiva un poco in colpa perché loro due non erano destinati al matrimonio, che desiderava tanto i suoi baci e le sue carezze in tutto il corpo e che poi voleva ricevere il suo sperma dopo uno struscio prolungato. Egli rideva, rispondeva che lei in effetti era una svergognata e che proprio per questo gli piaceva tanto, e che non aveva nessuna intenzione di lasciarla fino a quando non fossero stati celebrati quei benedetti e inevitabili matrimoni. Poi, lusingato e raddolcito dal calore spontaneo e affettuoso di lei, le sussurrava all’orecchio che se non fossero appartenuti a due mondi tanto diversi e distanti, lui se la sarebbe presa perfino col danno; però l’avrebbe sorvegliata e fatta sorvegliare da vicino, per impedire che, così pronta all’amore com’era, si mettesse a conoscere altri uomini. Allora era lei che si metteva a ridere, e si tuffava tra le sue braccia, e si avvinghiava a lui; e lui la baciava sulle labbra, sul collo, poi le mordicchiava le orecchie e anche le spalle nude, quindi le tirava giù le bretelle dei leggeri abiti estivi, le abbassava il busto e il reggiseno e cominciava a leccare i grandi seni colmi e profumati e quei capezzoli che parevano due fiori. Lei si apriva, e lui, ancora tutto vestito, le faceva sentire sui fianchi, sul pube, tra le gambe ancora tutti coperti dagli abiti il suo membro già duro ed eretto.

Un venerdì sera in cui non v’era luna e vi era canicola, dopo che fu calato il buio, il giovane condusse l’amante all’abbeveratoio grande, al di là della trazzera con cui confinavano il suo vigneto e il suo uliveto. A quell’ora non ci si recava nessuno, e del resto quella sera si celebrava al Santuario in modo solenne la festa di Sant’Anna, madre della Madonna e molto venerata dai cappuccini di quell’angolo di Sicilia, per cui tutti, proprio tutti coloro che erano in grado di camminare, dopo essersi goduti bancarelle, sfilate, canti e giochi, si recavano alla celebrazione ecclesiastica alle 21. I due amanti si spogliarono e scesero nell’acqua, che a lei arrivava quasi al petto. Egli l’attirò a sé in modo che i corpi fossero incollati, le disse di avvinghiarsi al suo collo con le braccia, le sollevò una gamba e – mentre tutto il corpo di lei si alzava ed egli la sorreggeva con un braccio saldamente piantato sotto i suoi glutei – cominciò a entrare. Poi la sollevò ancora di più, tenendole entrambe le gambe, che si piegarono sui fianchi dell’uomo. Lei era stupita: – Amore, così non riuscirai a penetrarmi del tutto e non so come aiutarti –. Egli coprì di baci il viso e il collo dell’amante, poi rispose: – Ora andiamo avanti, stiamo solo giocando. La portò al bordo della vasca, in un punto in cui l’acqua gli arrivava sotto l’ombelico, la fece sedere sul bordo e le disse di girarsi a pancia in giù. L’afferrò per le gambe, sostenendole ancora una volta ai propri fianchi e lasciò cadere il suo petto sulla schiena di lei, mentre si muoveva ritmicamente e la penetrava più a fondo. A un certo punto lei cominciò ad ansimare e quasi a contrarsi e allora egli potè lasciarsi andare, emise un grido, la sua schiena si inarcò un poco, poi il suo petto e la testa ripiombarono sulla schiena di lei. Non riuscì più a sostenerle saldamente le gambe e così la donna scivolò in acqua. Entrambi risero, si baciarono e poi si sdraiarono sull’erba, allacciati. – Sei come un fiore completamente aperto – le disse Nino guardandola con tenerezza. La donna fu vivamente impressionata, e cominciò a piangere per l’emozione e l’intenerimento prodotto in lei da quelle parole. Egli gliene fu grato, l’abbracciò e la baciò a più riprese sui capelli. Si rivestirono e, nuovamente allacciati, si avviarono verso casa di lui, al buio e molto silenziosamente.

‒ Tu sei un amante molto bravo e privo di ogni inibizione, insomma di ogni freno mentale. Ormai riesci a capirmi in tutto, a darmi delle sensazioni che non avevo mai provato e quando vuoi sai darmi il piacere. Ma gli uomini della terra, i coltivatori, anche quando vogliono bene alle loro donne e vogliono farle contente non hanno, credo, tutta questa fantasia che hai tu. Da dove ti viene? ‒. Nino rispose con semplicità che durante la guerra gli era capitato di essere al fronte in una zona da cui si raggiungeva facilmente un bordello di quelli costosi. ‒ Quelli poveri di noi cercavano di fare amicizia con le ragazze per ottenere qualche incontro gratuito. Ma la mezzana naturalmente sorvegliava le ragazze, perciò solo chi pagava poteva fare all’amore. Però il bordello era in una bella villa con un grande giardino. Quando la mezzana ha capito che io, nelle poche ore libere, ero in grado di sistemarle bene il giardino e di metterle su un orto fornitissimo mi ha proposto spontaneamente di lavorare per lei e di ricevere in cambio, invece dei denari, incontri con le sue ragazze. Potevo scegliere quella che preferivo. Naturalmente ne ho usate diverse, e così ho fatto molte esperienze in poco tempo. Intendo dire che loro, in poco tempo, mi hanno insegnato tutte le cose che l’uomo e la donna possono fare insieme e che fanno godere di più, prima e durante l’accoppiamento –.

L’uomo tacque per alcuni minuti, assorto, forse passando in rassegna quei momenti che gli avevano dato l’estasi e gli avevano consentito di non avere cedimenti, di comportarsi sempre da soldato coraggioso. Lei stava zitta, ricacciando indietro le domande che le si affollavano alla mente. Gli accarezzò dolcemente la nuca. Erano giunti sulla spianata antistante la casetta di lui. Il mulo e i cani, legati, povere bestie, espressero rumorosamente il proprio gradimento per il ritorno del padrone. Nino conduceva la donna tenendola per il braccio e si sedette accanto a lei su una panca. Poi riprese il racconto: – con quelle ragazze, quando si entrava nel budello, bisognava usare delle precauzioni sgradevoli. Intanto era necessario, perché altrimenti si rischiava di prendere la sifilide. A un mio camerata è successo. Ma io son certo di avere adoperato tutte le cautele giuste e di avere evitato il contagio. Ormai sono passati quasi quattro anni dal giorno che non sono più andato al bordello –.

Il mulo, che d’estate passava la notte sotto la tettoia adiacente a una parete laterale della casa, si era riaddormentato chetamente. La donna badava a non far rumore per non svegliarlo e respirava in modo quanto più possibile silenzioso. Quella sorta di stalla era abbastanza vicina al grande tavolo di assi di pino e alle due panche che lo fiancheggiavano, sullo spiazzo antistante l’ingresso dell’abitazione. Nino entrò a prendere il materasso di lana, rattoppato di fuori, che sua madre aveva aperto da poco per sfilacciare la lana indurita e così rammorbidirla. Portò fuori anche delle lenzuola leggere. Distese accuratamente sulla panca ogni cosa, poi spogliò lentamente la compagna, badando a non sciupare gli abiti di lei, e la fece sdraiare sulla panca tutta arredata. Quindi la guardò a lungo, fissamente, e mentre esplorava il suo corpo con gli occhi, cominciò a esplorarlo anche con le mani e con la lingua. Lei gli sbottonò la camicia, mentre l’uomo prendeva a massaggiarle in modo esperto il clitoride e la vagina. Lei faticava, per evitare di contorcersi, ma non tratteneva sospiri e gemiti. Infine, con gli occhi pieni di lacrime, lo chiamò a sé: – Nino, Nino, vieni su di me –. Egli pose le labbra su quegli occhi, ingoiò quelle lacrime, e le baciò gli occhi.

Si spogliò quieto, senza fretta, poi la coprì interamente. La donna lo baciava con passione, mentre lui con la lingua tracciò il contorno dell’orecchio sinistro esterno di lei, poi le mordicchiò lentamente il lobo, ripetè gli stessi atti a destra, le baciò il collo, quindi premette le proprie labbra sulle sue e le loro lingue danzarono insieme, furiosamente. Allora le mani di lui le accarezzarono seni e capezzoli, il monte di Venere e i genitali interni. Egli cominciò a penetrarla con studiata lentezza, ma dopo cominciò a muoversi dentro di lei a ritmo serrato, sempre più serrato, mentre lei si lasciava andare. La donna aveva riaperto le gambe, con cui all’inizio del coito aveva abbracciato la schiena di lui, le teneva quanto più possibile aperte e piegate ad angolo retto, e muoveva i glutei in modo da assecondare lo sforzo erotico di lui. – Quando vengo dentro di te mi pare di essere in paradiso –. Queste parole andarono dritto al cuore di lei: – Stai diventando un poeta, tu che sei sempre stato tanto ruvido; mio Dio, questa passione ci sta rendendo migliori, tutti e due. È stupendo. Ti amo, Nino, ti amo, voglio stare sempre con te –. Pronunziò queste ultime parole come in un grido. Anch’egli gettò fuori un grido, e mentre emetteva lo sperma nel corpo di lei, la donna rovesciò all’indietro la testa, in preda alle contrazioni del piacere, che la sollevavano in un mondo diverso e quasi le facevano perdere la piena coscienza di sé.

Mentre giacevano abbracciati e ansimanti, prima ancora che egli estraesse il pene dalla vagina di lei, si sentì una sorta di brontolio. Lei volse la testa in direzione del rumore: il mulo era sveglio e li stava guardando fissamente, respirando a narici piene l’aria circostante inconsueta, impregnata dell’afrore del sesso. Quindi lei vide un coso enorme allungarsi sotto la pancia del mulo, nella zona delle sue zampe posteriori. Pareva una quinta zampa, ma non era parallela alle altre. La quinta zampa arrivò quasi fino a terra, ad angolo acuto. Nino seguì lo sguardo dell’amante e poi rise di cuore: – ma guarda un po’, si è svegliato, ha visto e sentito tutto, e vorrebbe fare la monta anche lui! –.

Più tardi, mentre giacevano dentro casa di lui, sopra lo stesso materasso che due ore prima era stato collocato sulla panca, a lei pareva che tutto fosse bellissimo, dentro quella piccola stanzetta angusta, dalle pareti spesse che odoravano vagamente di rancido. Nino in onore della donna teneva accesa non solo una candela ma anche un lume a petrolio. Ai chiodi sulle pareti non erano appesi altro che ghirlande di aglio e rami colmi di peperoncino; vi erano poi delle scaffalature di legno, chiaramente fabbricate dal contadino medesimo: su una parete era accatastata la sua roba personale, e sull’altra pochi tegami e pentole d’alluminio, tre boccali, mestoli, due coppini, mentre per terra stavano i recipienti colmi di olio, le bottiglie con la conserva di pomodoro, e sopra alcune mensole la pasta, il sale, il vino e altri generi di prima necessità. Non c’era su quelle pareti spoglie alcuna immagine di Santo, neppure quella del patrono di Clisunto, e nessuna immagine del Sacro cuore o di Gesù. – Tu non sei religioso? – chiese la donna all’amante – in genere i contadini lo sono –. – Coi parrini preferisco non avere a che fare – rispose il giovane – quanto a Dio, mi pare che si faccia gli affari suoi come io mi faccio i miei –. – Mi dispiace che tu non sia religioso, mi fa temere che tu non abbia bontà –.

Le parole di lei lo lasciarono indifferente. – Io invece sono contento che tu ci vai in chiesa. È giusto che le donne siano religiose; la religione è un freno, va bene se ci procura madri e mogli sottomesse agli uomini di casa, e anche figli sottomessi ai genitori. Però i maschi, quando crescono, non devono più parlare ai parrini; e le donne non devono mai parlare ai parrini dei loro padri o dei loro mariti, neppure in confessione –. – Non so se potrò confessarmi mai più, – disse lei con semplicità – come faccio a confessare che mi sono data a te, completamente e per settimane, proprio alla vigilia del matrimonio? –. – Dovrai confessarti per forza. Anch’io dovrò farlo, sennò al parrino può venirci l’idea di non darmi la comunione nel giorno dello sposalizio. Al parrino racconterò in confessione che ho detto qualche bestemmia e che sono andato con qualche prostituta. Certo non gli parlerò di te. Tu confessati e fa come me. Di’ al parrino che hai fatto dei peccati di gola, che per l’ira hai litigato con tua madre, per l’invidia con le tue sorelle e che hai fatto delle mormorazioni sulle tue amiche –.

Lei rise, poi gli accarezzò dolcemente la nuca, e sussurrò: – Amore mio…–. Egli la baciò sulla bocca e rispose: – Come sembri bella –. Lei fu invasa nuovamente dalla commozione, dei lacrimoni rigarono il suo bel volto, poi disse, risoluta: – Nino, io ci ho pensato; forse per amore tuo non mi confesserò mai più. – Che vuoi dire? – le chiese lui sorpreso. – Intendo dire che non voglio quei due sposalizi; mi fanno orrore; io voglio essere tua e non di un altro uomo, voglio essere solo tua e vivere con te, liberamente o meglio ancora nel matrimonio, se tu vorrai; e vorrei che tu fossi il mio uomo e che tu non fossi l’uomo di nessun’altra donna, solo l’uomo mio. Nino, fuggiamo insieme e poi sposiamoci –.

L’uomo la guardò al modo come si guarda qualcuno che all’improvviso, inaspettatamente, perde il senno e parla e si comporta da demente. Poi, tranquillo, rispose: – Se tu ci hai molti e molti piccioli, tanti che possiamo vivere senza pensieri per sempre, si può fare. Ma in casa comanda l’uomo. Perciò tu dai a me i piccioli e ci penso io a come metterli a frutto –. Allora fu lei a guardarlo sbigottita, come se egli avesse pronunziato parole dissennate, e gli replicò con veemenza: – Sai benissimo che non ho soldi e che non sono ricca. Già la mia famiglia con la guerra ha perso tutto. Tutte le case che avevamo a Catania e a Palermo, eredità dei miei nonni e dei miei zii, sono cadute sotto le bombe; per miracolo a mia madre è rimasta quella di Siracusa e questa proprietà di campagna. Ma sai pure che io lavorerò in ufficio, da settembre, e che non c’è bisogno che mi mantenga tu –.

– Se ti metti a vivere con un contadino o se lo sposi, tu, che vieni da un’antica famiglia di notabili, molto conosciuta e rispettata, non lavorerai proprio da nessuna parte. Faranno in modo di mandarti via. Sarai trattata da tutti come una lebbrosa. Nessuno vorrà più avere rapporti con te, neanche quelli che ti vogliono bene davvero, perché verrebbero rifiutati anche loro. La tua famiglia e il tuo ambiente sociale ti scacceranno; e io pure sarò scacciato dalla mia famiglia e dalla mia gente; nessuno più mi darà lavoro. Al massimo potrò mangiare, e dar da mangiare a te, quello che riuscirò a cavare coltivando questi terreni, che si prendono tantissimo sudore della mia fronte, perché non sono dei migliori. Smettila di fare dei discorsi da scimunita. Non c’è bisogno che mandiamo all’aria nessuno sposalizio. Tu hai le fregole e vuoi che te le faccia passare io. Va benissimo. Anche dopo che sarai sposata io ti farò passare le fregole ogni volta che sarà possibile. Riusciremo a spassarcela anche se certo non ogni giorno come adesso. Starò molto attento a impedire che se ne accorga mia moglie, perché la rispetto e perché la gelosia porta in casa l’inferno. Tuo marito non mi preoccupa perché è uno nato proprio per averci le corna e le corna gli staranno bene. Lui non si accorgerà mai di averle –.

La donna per qualche istante si rifiutò di capire a fondo le implicazioni del discorso fattole dall’amante. – Nino ma che dici? Io parlavo di amore, di vivere come due che si amano e che si vogliono onestamente, anche se questo farà soffrire purtroppo il mio fidanzato e la tua fidanzata e anche se questo ci creerà molti problemi. Ricordi tutte le cose che ci siamo detti in questi giorni? Ricordi tutte le parole appassionate che mi hai detto durante i nostri incontri? Ed eri sincero, io l’ho sentito. Andiamocene da qui, andiamo in America. Partiamo! Sai bene che laggiù tu troverai lavoro facilmente e lavorerò anch’io. Io parlo un ottimo inglese. Imparerai facilmente anche tu, così intelligente e capace come sei. Lì non ci saranno ostacoli alla nostra unione. Tutti ci rispetteranno purché noi rispettiamo le leggi di quel Paese, che sono molto tolleranti e democratiche –.

  • La democrazia! Sai che ci faccio con la democrazia? Allora sei proprio scimunita, non hai capito niente. Io voglio stare qui, nella mia terra, e voglio lavorare questa terra; voglio sposare la mia fidanzata e voglio dei figli da lei; voglio restare con la mia gente, nel posto in cui sono nato. E se proprio dalla terra di qui non riuscissi a cavare più nulla, allora partirei, sì, partirei, ma non con te, partirei insieme alla mia fidanzata, dopo lo sposalizio. Che me ne frega di quello che ti ho detto in questi giorni? Le stesse cose, proprio le stesse cose, le dicevo anche alle due baldracche che preferivo, in quel bordello vicino al fronte. Un uomo che è un vero uomo la passione la prova per tutte le tappinare che gli fanno stare bene la minchia. Ma il matrimonio e la famiglia sono un’altra cosa. Tu sei proprio come quelle bagasce: loro erano contente di darla a me, cosa credi? Ero il loro preferito. Non ero come gli altri clienti, panciuti e quasi flosci. Tu hai un temperamento di vera zoccola principiante: sei tutta pronta al sesso, sei un pentolone di emozioni che ribollono, sei incapace di controllarle. Poi, diventando esperte e invecchiando, le puttane diventano anche fredde e calcolatrici –.

La donna si ritrasse con orrore, finalmente capiva. Si alzò, avvolse intorno al proprio corpo una specie di asciugamano bucherellato e raccolse i propri indumenti. Prima di raggiungere la soglia della stanzetta si voltò a guardarlo con disprezzo e con rancore; poi cercò di gettargli addosso parole pesanti come pietre: – Tu sei un essere lurido e schifoso. Tu non vuoi bene a nessuno salvo che a te stesso. Mi fai orrore, sei un uomo del tutto privo di anima e soprattutto di onore. Tu non lavorerai più altra terra che la tua, qui a Montedeifrassini. Dirò a tutti che sei un ladro e farò in modo che la gente perbene ti eviti –.

Il contadino si levò, la raggiunse e le assestò due ceffoni durissimi sulle guance, che divennero rosso fuoco e che all’indomani erano nere: – Pulla! Porca! Tu non dirai proprio nulla a nessuno contro di me. Se ci proverai, racconterò a tuo marito e a tua madre com’è fatto il tuo corpo esattamente. Descriverò esattamente la peluria che ci hai sulla patata e i tuoi nei: quello sotto l’ombelico, quello sotto la mammella destra, la macchia che ci hai sulla natica sinistra. Un pover’uomo lavora duramente sotto il sole. Quando si prende un po’ di riposo gli compare davanti una diavolessa nuda. Come fa il poveraccio a resistere? Nemmeno San Francesco ci riuscirebbe –.

– Maledetto, maledetto! – ora lei gridava in modo convulso e irrefrenabile: – Allora sarò io a dire che mi hai violentata, portandomi sul terreno tuo con un pretesto ingegnoso. Dirò che mi hai strappato gli abiti, e che sebbene io mi sia difesa in tutti i modi tu mi hai picchiato selvaggiamente, come hai appena fatto, e mi hai posseduta con la forza, con la forza bruta e basta, e così è stato in fondo! Sai, ce li ho ancora gli abiti strappati di quella domenica, e si vede benissimo che sono stati strappati da braccia forti, molto forti. Forza, picchiami ancora, così tutti comprenderanno che sei davvero un violento e uno stupratore; oppure uccidimi, e passerai in prigione il resto della tua vita –.

– Non ce n’è di bisogno, disse lui gelido, e rapidamente si impossessò degli indumenti che lei teneva stretti a sé. – I tuoi vestiti e la tua biancheria restano qui. Me li terrò io per ricordo. Tu ti tieni i vestiti strappati e io mi tengo quelli intatti. Saprò custodirli in modo che il profumo della tua pelle e del tuo sesso rimangano bene impressi. E del resto a chi vuoi che importi qualcosa di una sgualdrina che si è fatta sbattere? Se una viene stuprata vuol dire che lei ha provocato l’uomo, che lei voleva farsi sbattere. Te ne torni a casa nuda, tanto c’è buio fitto e fa molto caldo. Avanti stracchiola, vattene! –

Eli tornò in sé gravemente angosciata. Le girava la testa, si sentiva come ubriaca. Era stato un incubo oppure un’allucinazione? – Mio Dio, che schifo, che schifo – disse a se stessa – tutto quel sesso lurido, sporco, immondizia fetida e ripugnante; mi viene da vomitare –. Come le era stato possibile concepire e comprendere tutti quei dialoghi più in dialetto che in italiano? Nella sua mente mulinavano freneticamente lacerti e immagini di tanti libri letti e di tanti films visti. O forse tanti frammenti sparsi e disgregati si erano ricomposti come in un puzzle? Certo grazie a quel puzzle tutto diventava chiaro; ogni cosa che prima era sembrata strana, fuori posto, trovava in quel sogno sporco e truculento la sua spiegazione. Si capiva perché la zia fosse diventata una donna tanto dura, prepotente, insensibile alle legittime aspirazioni altrui; si capiva come mai avesse sempre provato, e anche esibito, grande affetto e devozione nei confronti di quel marito umile e sottomesso: un marito che la accontentava in tutto e per tutto, sempre prestandosi al ruolo di cavalier servente; si capiva perché la zia avesse avuto un atteggiamento tanto contorto e ambivalente nei confronti delle due figlie gemelle, tanto che queste si odiavano a morte tra loro, peggio di Eteocle e Polinice, quasi ognuno delle due imputasse all’altra la colpa di aver suscitato le prevaricazioni della madre; si capiva perché la zia avesse lasciato sempre alla propria madre, finché ciò era stato possibile, la conduzione dei rapporti con Nino, evitando studiosamente quell’uomo che non voleva però licenziare; si capiva perché la zia era stata lentamente ridotta quasi in schiavitù da Nino, dopo che sua madre era morta e soprattutto dopo la morte del marito; si capiva anche perché Nino, caso più unico che raro nella contrada e nelle consuetudini di campagna in genere, non facesse mai salire sua moglie a salutare l’anziana sua datrice di lavoro, la nonna di Eli, neppure quando fu evidente che la signora sarebbe presto passata a miglior vita.

Eli ricordava bene che sua madre, la quale provava una potente, invincibile antipatia nei confronti di Nino, aveva più volte cercato di farlo licenziare per sostituirlo con un prestatore d’opera più fidato e beneducato. Tra le ragioni addotte dalla madre di Eli vi era anche questa, che era un atto quasi ingiurioso che la moglie del contadino non venisse mai a fare una visita alle signore della proprietà e soprattutto alla capostipite. E la zia, quando si accendevano queste discussioni, difendeva sempre con prepotenza la tesi che bisognava tenersi Nino.

Eli si sfilò dal dito lo smeraldo e con la sola destra lo riagganciò al filo di seta che dal collo le arrivava al petto. Non sapeva se ci fosse un rapporto tra quella sua allucinazione e i fatti realmente accaduti, un rapporto di somiglianza o di identità. Certo che se quelle cose erano successe davvero, la zia, poveretta, aveva subito frustrazioni tremende. Per due volte di seguito era stata calpestata e vilipesa da due farabutti egoisti, e la seconda esperienza era stata senza dubbio molto più umiliante e dolorosa della prima. Quando, da vecchia, si era arresa a Nino ed era diventata sua succube, probabilmente non provava più disprezzo né rancore per quella persona. Molto peggio: provava paura, paura e basta, una paura immensa: per la proprietà, per se stessa, per i figli gemelli ai quali, brigando, cercava di fare avere tutto il fondo e la grande casa, portando via alla sorella la sua parte; aveva paura che quel contadino potesse ancora nuocerle, rivelando cose che avrebbero impresso indelebilmente su di lei e sulla famiglia tutta un marchio d’infamia. Dopo queste fantasticherie Eli tornò in sé: doveva essere svenuta e aver subito quell’incubo orribile, quasi sadomasochista, chissà, forse per l’emergere di un rancore nei confronti della parente scomparsa. Nulla, proprio nulla, provava che vi fosse stata quella intrinsichezza tra Nino e sua zia.

Al ritorno di coscienza fece seguito la percezione che riusciva a muoversi a stento e facendo leva sul solo braccio destro, il che non era sufficiente per rialzarsi, poiché era distesa in pendenza ripida e su terra scivolosa. Provò una sensazione di angoscia acuta; nondimeno, dopo avere riflettuto per qualche istante, decise di gridare a squarciagola, a intervalli di dieci minuti circa, fino a esaurimento della voce; e cominciò: «Aiuto! Aiuto, aiuto!». Non dovette attendere di urlare per una seconda volta. Pochissimi minuti dopo le sue prime urla udì passi frettolosi e Rosario Impastato, con il volto contratto e gli occhi sgranati dalla paura si curvò su di lei. – Che ci successe? Sa che ero preoccupato da più di un’ora? Oggi, prima di entrare dai Geraci per innaffiare e sistemare i sentieri ero passato da lei, a vedere come stava, e a lasciarle cetrioli, tenerumi e insalata del mio orto. Tutte le porte di casa erano spalancate ma lei non ci stava. Mi sono preoccupato, perché anche se Lei era a fare il riposino al piano di sopra con i tappi nelle orecchie mi pareva difficile che avesse lasciato tutto aperto e pure il computer acceso fuori, davanti al Suo panorama. Ho gridato, L’ho chiamata tante volte, ma Lei non ha mai risposto. Ero deciso a ripassare quando lasciavo la proprietà Geraci e perfino a ispezionare casa Sua se tutto fosse stato ancora così –.

– Rosario, sono caduta mentre estirpavo l’edera; ho battuto per terra con violenza, credo di essermi rotta la spalla sinistra. Probabilmente sono svenuta o quasi, insomma, per un po’ non ho capito più niente –. Il contadino scese con cautela, prese il piccone e si scavò delle nicchie, per appoggiare bene i propri piedi senza correre il rischio di scivolare. Poi si curvò sulla donna, e lei percepì la dolcezza di quello sguardo, che passava in rassegna le sue membra. Quindi lui cominciò a toccarla delicatamente. Eli era tutta discinta, mutande, reggiseno e pareo allacciato al collo per coprire lo smeraldo. – Rosario, no. No! Forse su alcune della mia famiglia si è abbattuta la maledizione dell’imbestiamento, ma io ne sono stata risparmiata. Io, poi, a differenza di mia zia un nobiluomo l’ho sposato, tanti anni fa, per amore, e perché aspettavamo un bambino, ed è stato un matrimonio disastroso. Poi ce ne sono stati altri e sempre storie tormentose, che mi hanno lasciato sola, sola e disperata. Ma ho raggiunto una specie di equilibrio, l’ho costruito con tenacia, e non voglio soffrire di nuovo, basta! Basta! –.

Il contadino fissava la donna ridotta ad aderire al terreno con espressione molto preoccupata e più gentile che mai: – Signora, non so se si sia rotta delle costole. Di certo ha un bernoccolo enorme sulla fronte e una brutta lussazione sulla spalla sinistra. L’osso della spalla è uscito. Lei ha la febbre, un poco capisce e un poco delira. Ora entro in casa sua e telefono all’ospedale di Clisunto che mandino subito un’ambulanza. Poi telefono anche a quei due amici Suoi che conosco e ci chiedo di venire qui e stare con Lei finché arriva l’ambulanza. Ma non dobbiamo spostarLa prima che arrivi il medico dell’ospedale; sarebbe troppo pericoloso –.

Nei giorni successivi Impastato venne a trovare Eli ogni pomeriggio alle 17.00, quando terminava la giornata di lavoro. Al terzo giorno portò anche sua moglie, affinché cucinasse e sbrigasse le faccende domestiche. Eli non aveva voluto saperne di trasferirsi in casa di amici. Le costole non erano rotte, si erano solo infiammate anche se il dolore era intenso, certo; però con il braccio destro la donna riusciva a compiere le operazioni essenziali mentre il sinistro di giorno stava stretto al busto dalla fascia desault. In qualche modo Impastato aveva compreso che Eli, mentre delirava, aveva avuto paura di lui e non venne quasi mai solo. Spesso si portava dietro Santino, il quale metteva la donna di ottimo umore, con la sua bella allegria e il suo senso dell’umorismo. Un giorno, prima di andarsene, Impastato indugiò sui gradini che immettevano al parcheggio. Guardò esitante l’infortunata, infine si decise: – Signora, creda che quel giorno che L’ho trovata ho avuto più paura per la Sua mente che per il Suo corpo. Non voglio mancarLe di rispetto, per davvero, ma un’angoscia come quella che c’era nei Suoi occhi, nelle parole che diceva, io non L’avevo vista mai. Lei sta troppo sola, troppo sola con quei libri e con quel computer. Parla di più con le piante, con le lucertole e con i pipistrelli che con i cristiani. Sua figlia non è venuta a vederLa, nessuno dei Suoi parenti è venuto. Signora, per ora stia con i Suoi amici, passi con loro i pomeriggi e le serate, visto che non può andare al mare. Non stia sola, la solitudine La rovina –. Qui il signor Rosario tacque, molto imbarazzato, quasi si torse le mani, poi gli venne il coraggio di proseguire: – Io quando torno a casa trovo mia moglie, e appena la vedo mi sento contento, anche se ho passato una brutta giornata e anche se lei non mi sembra di buon umore. Ma poi ci raccontiamo com’è andata la giornata e ci mettiamo sempre a ridere tutti e due, e dopo è bello quando ceniamo, con i figli che ci abbiamo in casa, e guardiamo insieme un po’ di televisione. Due volte alla settimana vengono a pranzo gli altri figli, con i loro sposi e i nipotini e stiamo allegri. Signora, perdoni se mi prendo questa libertà, ma mia moglie, e io, e anche Santino, stiamo in pena per Lei. Lei è una donna ancora bella, è gentile, è aperta di carattere: noi Le auguriamo che troverà un altro marito, dato che il padre di Sua figlia si è risposato. Lei è una persona che è fatta per avere una famiglia –.

– Rosario, La ringrazio di cuore, so che si preoccupa sinceramente per me. Ha ragione Lei, devo trovare un modo di vivere più equilibrato, più ricco di comunicazione con i cristiani. Ho incontrato uomini con i quali si è creato un legame, dopo la rottura tra me e mio marito. Ma è sempre finita. Spesso quelli al di sopra del mio livello mentale e culturale sono persone aride, chissà perché. Grazie ancora –.

Una settimana dopo la quasi rovinosa caduta, Eli, ancora dolorante, scese a trovare, due ore prima del tramonto, Nino e sua moglie. Si intrattenne con loro affabilmente, raccontando dell’incidente che le era occorso mentre tentava di recidere la grossa radice di edera. A un certo punto si rivolse a Nino, sempre con tono leggero e conversevole: – Ma sa, Nino, che ho ritrovato le chiavi di quel grosso forziere che sta nel sottoscala da tempo immemorabile, le chiavi che secondo la zia erano andate perse. Dentro al forziere c’erano abiti strappati e un diario tenuto dalla zia. Dunque in un mese di luglio di 53 anni or sono mia zia buon’anima trascorse un lungo periodo tutta sola nella casa qua sopra –. La moglie di Nino stava a sentire con una lieve maschera di diffidenza che non bastava però a velare la sua vivissima curiosità, o così almeno parve a Eli. Questa proseguì: – E una domenica la zia cadde sul sentiero che esce dalla pineta buona, quella con i pinoli, e si fece male alle costole lei pure, come me l’altro giorno. Almeno, così ricordano i villeggianti vecchi. Ma io ho ora letto i ricordi della zia: fu Lei, Nino, non è vero, a sentire le grida di mia zia e a soccorrerla? –. Non esisteva alcun diario, ma Eli non aveva saputo resistere al desiderio di provocare in modo birichino quel vecchio odioso. Dopo che ebbe parlato e domandato cadde un silenzio assoluto, mentre Nino guardava l’ospite con gli occhi sbarrati. A Eli quegli occhi parvero pieni di terrore.

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